Di questo disco, per incominciare, esistono un sacco di copertine. Sì…, dal momento che è un bootleg. Ad esempio, quella qui di fianco mica è quella che c’è sui miei scaffaloni dedicati all’Arte Suprema…questo è ciò che per pigrizia ci troviamo in Rete. Ma va bene ugualmente: da sempre sostanzialisti, ce ne strafottiamo della copertina e badiamo alla sostanza, come ce ne siamo sempre strafottuti dei vestiti, delle cornici e dei titoli di coda. L’Arte è sempre dentro, non intorno. E qui d’arte ce n’è in abbondanza, anche se il disco si presta a più d’un’analisi. Innanzitutto sarebbe bello provare a capire perché non vi sia mai stata pubblicazione ufficiale di questo disco, data l’altissima qualità musicale della proposta. Mistero…. : problemi discografici ? Poca convinzione del protagonista vivo? Poca convinzione, allora, del protagonista ormai purtroppo defunto? Probabilmente non lo sapremo mai, anche se sappiamo benissimo che prima o poi una vedova o un’erede che pubblica tutto salta sempre fuori. E allora aspetteremo le prove, le alternative takes, i backstages e naturalmente il dvd allegato. E lo aspetteremo con dichiarato schifo e portafogli prontissimo. Perché, si sa, gli innamorati sono sempre sommamente incoerenti.

Era una sera di luglio del 1987, anno importante che segna, forse, la vera fine degli anni ’80. Prince pubblicava un conclusivo “Sign Of The Times” che avrebbe determinato la chiusura d’una pagina importantissima sia per lui che per la musica in genere, nera o bianca non importa. Nelle radio e nelle televisioni capitava d’imbattersi nella prima “house music” che segnerà, con mille evoluzioni, perosnalmente una meno interessante dell’altra, la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90. Da lì a poco un fintissimo revival cantautorale mixato a pseudo-durezza di facciata, vestito con camicione a quadri alla Neil Young, avrebbe segnato i novanta come gli anni del riciclo superficiale, gli anni dove le idee non ci sono più ma non c’è ancora l’onestà della riproposizione reo-confessa del passato, figlia d’una accettazione evidente della mancanza delle idee e della superiorità del già detto. Il mercato ancora seguiva le idee e non erano le idee (finte) a esser costruite a tavolino dal mercato.

Qui c’è tutto: c’è l’orchestra di Gil Evans, una delle più interessanti, innovative e importanti della storia del jazz. Un’orchestra che ha registrato e suonato col miglior Miles, che ha saputo conoscere ed esaltare la musica di Hendrix quando ancora in molti lo consideravano soltanto un fricchettone con la chitarra. Insomma, un momumento vivente che da lì a poco ci avrebbe lasciato, come tanti altri (Dexter Gordon, Stan Getz e lo stesso Miles, per dirne tre, erano ancora in giro, allora…). E c’è Sting, ovvero il musicista (amatissimo da musicisti di tutto il mondo perché bravo e dalle ragazze di tutto il mondo perché bello, così come odiato da molti uomini perché bello…) che ha traghettato meglio forse di chiunque altro i ’70 sugli ’80, con quel gruppo assolutamente fondamentale per l’evoluzione del sound definito ingiustamente “leggero” che sono stati i Police, e che poi da solo avrebbe traversato gli ottanta con un rock-pop-jazz sofisticato e rifinito. Nell’anno di Umbria Jazz, Sting aveva da poco liquidato un buon album, “Nothing Like The Sun”, con alcune cose memorabili ed altre, col senno di poi, decisamente trascurabili. E con qualche classicissimo come “Fragile” o “Englishman in New York”. E, soprattutto, col primo incontro con l’orchestra di Gil Evans, quella “Little Wing” hendrixiana così diversa dall’originale, ma così sentita e (superfluo dirlo) meravigliosamente orchestrata.

Questo concerto è l’ideale seguito di quella collaborazione. Un’opera coraggiosissima, allora osteggiata da molti e snobbata da altri. Ma questo era un vizio degli ottanta: per fare un esempio apparentemente non pertinente, allora se un’Artista dava una canzone per una pubblicità era ritenuto un cretino, oggi viene ritenuto cretino se non lo fa… E negli ottanta, anni strani e ancora tutti da studiare e approfondire senza banalità di pensiero e di parola, la percezione che si aveva del “nuovo” era decisamente diversissima da quella di oggi. Così come era diversa la percezione dei generi ed il concetto di “purismo”. Il purista del jazz, che oggi non fa una piega nel vedere Irene Grandi duettare con Bollani, allora si permetteva di rompere i coglioni se un gigante del pop-rock incontrava, su un palco fuori discussione, un gigante del jazz. E giù critiche su critiche, da parte di chi già allora ci mise qualche annetto a capire che Gil Evans tributava omaggi dovuti e giustissimi ad una altro gigante assoluto qual’era stato Jimi Hendrix, o da chi girava e rigirava per le mani “Tutu” di Miles senza capire cosa fosse. E in questa scaletta c’è tutto: Sting solista in un episodio eccellente (“Consider Me Gone”), brano schiettamente d’impronta jazz, già presente in “The Dream Of The Blue Turtles”, i Police in altri entusiasmanti capitoli (“Roxanne”, “Tea In The Sahara” e le apparentemente minori “Shadows In The Rain”, già autocoverizzata anche dallo Sting solista precedentemente, e “Murder By Numbers”).

Poi un paio d’episodi hendrixiani e un omaggio a Lady Day con la splendida “Strage Fruit”, forse il momento più emozionante dell’intera serata. Sting, dal canto suo, che in alcun concerti immediatamente precedenti era apparso lievemente giù di voce, per questo importantissimo appuntamento ha saputo recuperare la voce dei momenti assolutamente migliori: limpida, chiara, altissima, impeccabile tecnicamente ma assolutamente espressiva. Se il momento lo si vuole poi inquadrare “storicamente”, va detto che si tratta indubbiamente di uno dei più alti incontri tra due mondi paralleli ma spesso distanti quali sono il jazz e la “leggera”, a volte stranamente amanti, a volte generatori di figli bellissimi e di aborti. Qui tutto gira bene: l’orchestra (tranne un solo di contralto di modestia rea confessa) è perfetta, Sting come detto impeccabile, il fido Branford Marsalis era già il mostro di bravura che avvrebbe poi confermato d’essere nei suoi dischi successivi. E su tutto va valutato il valore aggiunto del bootleg, ovvero l’impossibilità assoluta di post produzione, registrazioni aggiuntive e correzioni varie. Quello che si sente è esattamente quello che è stato suonato. Lo pubblicheranno ufficialmente ? Prima o poi, scommetto, sì. Per ora ci si accontenta –ed è un bell’accontentarsi- di questi ciddì che girano con mille copertine e la stessa, bellissima, scaletta.

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