A muro crollato, a spartizione sovietica, a cortina sfaldata e a tiranno fucilato, Giorgio Gaber, nell'ambito del Teatro Canzone, compone, con un monologo bellissimo, il suo testamento politico analizzando con lucidità, e malinconia, ciò che all'epoca, ancora a caldo si considerava come "la cosa". Dove era finito il Comunismo? Semmai fosse esistito, il Comunismo era scomparso, messo via frettolosamente e con malcelata freddezza. Forse perché troppo spesso si era confuso, o meglio, voluto confondere con il "comunismo" abile trituratore di sogni o utopie come dir si voglia. E i Comunisti, almeno in Italia? Spariti. O meglio mimetizzati, accorsi in diaspora per due partiti prima, una decina di partitucoli poi, anche storicamente compromessi con quell'odiato scudo crociato che dopo trent'anni ci ha fatto accorgere dell'inutilità di eliminare il povero Aldo Moro. Dopo la Bolognina per una questione di comodo la falce e il martello sono stati sostituiti da una rosa per poi sfiorire completamente nel tempo. E gli ex "comunisti" siedono accanto gli ex democristiani.

Gaber, che era Comunista, ricorda cos'era il Comunismo, ammettendo, anche con ossequiosi ed umili mea culpa e con la sua impareggiabile ironia, ciò che quest'ultimo voleva essere e ciò che il "comunismo" ha trasformato in errore. Od orrore.

Quando comunisti ci si diventava per ragioni di toponomastica, per questioni ataviche, genetiche o patologiche. Per questioni di comodo o di necessità, per sgranocchiare qualche peperone imbottito alle feste popolari o consolarsi con un bicchiere di vino esclusivamente gratuito. Gli strumenti si avviano flebili in un lento crescendo. Pochi tasti bianchi pigiati in accompagnamento. Note prolungate in sottofondo abbracciano le parole di Giorgione scandite da un sorriso che presto diventerà amaro.

Quando si era convinti che la Russia e la Cina fossero paesi progrediti o spediti verso il progresso, mentre non tutti sapevano che il potere avrebbe reso gli uomini pari a bestie feroci. Quando i "comunisti" avrebbero promesso la libertà nelle terre e l'uguaglianza tra i popoli. Non mantenendo né l'una né l'altra. Quando c'era Enrico Berlinguer che era davvero una brava persona. Un Comunista. E la gente applaude. Anche quando c'è Giulio Andreotti che non è una brava persona. Un collezionista di scheletri a partire da Portella della Ginestra. E il Peggior Partito Socialista d'Europa. E la gente unisce gli applausi alle urla di approvazione.

Quando si parlava nei circoli di quella rivoluzione che qualcuno, Comunista, sta ancora aspettando. Anche quando dopo la moderazione e gli applausi scroscianti si tornava a casa parlottando di rivoluzione impossibile perché non conveniva a nessuno. Quando gli operai si spaccavano la schiena tra le catene di montaggio e venivano liquidati con paghe da fame e licenziamenti. Ma anche quando i protettori dei sindacati promettevano rivoluzioni che stiamo ancora aspettando. Quando l'uomo urla la sua rabbia in piazza e si cura la faringite nella stanza dei bottoni. Quando chi ci credeva, esponeva con orgoglio la tessera del Grande Partito Comunista. Sicuramente il più forte d'Europa. Ma anche quando chi ci credeva la esponeva con lo stesso orgoglio nonostante gli errori.

Gli strumenti si accordano alla voce aumentando di intensità. La batteria comincia a piovere donando spessore alle parole che iniziano a sgorgare rabbiose. Le verità spuntano e la tensione sale. La gente continua ad applaudire.

Gaber stringe i pugni e suda ansimante. Sferra gli ultimi attacchi possibili a quella classe dirigente imbevuta di tangenti, mafia e corruzione. Tuttora in carica. Le parole corpose e cariche di esasperazione bucano la sottile coltre di promesse mai mantenute, dimostrando, ancora una volta che i Comunisti non ci sono più. E ricorda quelle stragi nere, per colore politico e ferocia, a danno di innocenti e pagate dalla CIA e dall'OSS, solo perché non doveva vincere il Grande Partito Comunista. Quando tante famiglie stanno ancora aspettando una risposta e tante altre, purtroppo non potranno, qualora giungessero, più ascoltarle.

Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella imposta dai tiranni, dagli sfruttatori, dal potere insediato. Quando si era convinti che il Manifesto potesse entrare nelle teste della gente per ricavarne il meglio. Quando potevamo avere tutto senza troppe pretese e quando potevamo avere niente senza invidiare il prossimo. Come dice Gaber, si sperava in una morale diversa. Ce n'era la necessità. Quando il sogno non doveva diventare illusione e l'utopia, violenza. Perché ci si credeva davvero. Perché nonostante tutto la speranza di cambiare c'era ancora. Sempre. Voler spiccare il volo come quel gabbiano, sincero, commosso di Gaber, che trema al termine dello sfogo e riprende a respirare regolarmente. Gli strumenti toccano l'apice e si zittiscono in una veloce dissolvenza.

Il gabbiano capisce che nonostante tutto ha le ali tarpate. Le speranze sono morte perché troppi i peccati commessi. Il gabbiano abbassa la testa e danza. Lo coglie la morte in una lenta piroetta. Una lacrima spunta dall'occhio freddo. Una goccia d'orgoglio.

Comunisti sempre.

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