Uno dei più grandi momenti di svolta nella storia dell'opera avvenne quando tale Pietro Mascagni sbucò dal nulla trionfando con un'operina di un'ora e qualcosa di durata, basata su un racconto di Giovanni Verga e, di conseguenza, facendo definitivamente capire un po' a tutti che re, regine e principi e, più in generale, tutto quel corollario di fastosa grandeur aveva ormai fatto il suo tempo; già prima c'erano state numerose altre avvisaglie, ma la Cavalleria Rusticana segnò nettamente ed inequivocabilmente il cambio di passo. Ma quello succedeva nel 1890 e, per almeno una sessantina d'anni (Robert le Diable - 1831), la Grand Opera è stata considerata la massima espressione del teatro lirico; Verdi, sicuramente attratto dalla sfida del "kolossal" ci si è inserito per due volte: prima con i Vespri Siciliani (1855), secondo me non tra le sue prove migliori e poi con Don Carlos / Don Carlo, che definirei l'ultimo, definitivo capolavoro del genere, e anche se presso il grande pubblico è sicuramente molto meno familiare come nome rispetto ad altri suoi lavori, tra i massimi vertici del repertorio verdiano. Davanti alla vastità e al peso drammatico del Don Carlos si rimane senza fiato, molto semplicemente.

La corte asburgica spagnola del 1500, con tutte le sue vicende fosche; guerre, rivolte, intrighi, matrimoni combinati, inquisizione ecc è lo scenario perfetto per una Grand Opera, ma non fatevi ingannare dai personaggi storici, la vicenda (basata sull'omonima tragedia di Schiller) è completamente romanzata, il vero Don Carlos non era per nulla il ragazzo appassionato e idealista qui rappresentato, Rodrigo, marchese di Posa, che nel vastissimo repertorio baritonale verdiano spicca per lirismo e nobiltà è un personaggio del tutto fittizio e via discorrendo, ma dopotutto opera e veridicità storica sono scarsamente se non per nulla compatibili. Comunque, il Don Carlos come lo si conosce oggi nasce da un processo piuttosto travagliato: presentato originariamente a Parigi nel 1867, in francese e in cinque atti, solo nel 1884 arrivò la prima versione italiana, con l'eliminazione (delittuosa) del primo atto, fortunatamente ripristinato due anni dopo, con la versione "definitiva", comunque tagliata in alcuni punti rispetto all'originale; su tutti, è rimasto fuori quel glorioso quarto d'ora che è il balletto "La Peregrina", e una Grand Opera senza balletto è come una torta senza ciliegina: se ne può fare a meno e Don Carlos rimane comunque sublime, però...

Una cosa che distingue Don Carlos da tutto il resto della produzione verdiana sono quei solenni preludi orchestrali che introducono le arie più salienti, rafforzandole enormemente: "Carlo, il sommo imperatore", "Ella giammai m'amò", "O don fatale", "Tu che le vanità", mettiamoci anche il raggelante leitmotiv del dialogo tra Filippo II e il grande inquisitore: una soluzione wagneriana, basti pensare alla cavalcata che precede "Dich, teure halle" in Tannhauser, che Verdi, da par suo, utilizza magistralmente. In assenza del balletto, il ruolo di "divertissement" e intermezzo di colore spetta interamente alla gran scena della principessa Eboli, ovvero l'introduzione corale e concertata "Sotto i folti, immensi abeti" e l'aria "Nel giardin del bello saracin ostello", nota anche come la Canzone del Velo, un episodio scenicamente sontuoso ed autenticamente ispirato agli elementi moreschi nella musica tradizionale spagnola, nella melodia e soprattutto nei vocalizzi. La Canzone del Velo mostra anche che Verdi, in questa fase della sua carriera, usa il coro il maniera diversa rispetto a Nabucco o Macbeth, facendolo risaltare con l'integrazione negli episodi dei solisti più che come elemento a sè stante; un altro monumentale esempio in questo senso è "Carlo, il sommo imperatore", un'aria corale sulla falsariga di "La vergine degli angeli" nella sua precedente opera, La Forza del Destino, ma con una connotazione molto più solenne e ieratica.

Curiosamente Carlos e Posa, insieme a Elisabetta gli eroi tragici di quest'opera, non hanno arie altisonanti come gli altri personaggi principali; si devono "accontentare" di nobilissime romanze come "Io la vidi e al suo sorriso" (Carlos, primo atto) e "Io morrò ma lieto in core" (Posa, quarto atto), ma questo mastodonte verdiano è molto più di una pur superba sfilata di "showpieces": le fondamente sono solidissime, sia musicalmente che drammaticamente: le complesse dinamiche dei rapporti Carlos-Elisabetta e Carlos-Posa sono impeccabilmente trasmesse in forma di duetti carichi di pathos e tensione emotiva. E qui Verdi è talmente ispirato, profondo ed efficace da riuscire perfino a far provare sincera empatia, almeno nel quarto atto, anche per il dispotico in fin dei conti debole Filippo II che, al termine della monumentale scena del grande inquisitore, chiude con un frustrato, disperato "Dunque il trono piegar dovrà sempre all'altare!"; da lì a pochi, in Aida, Amneris ribadirà il concetto in maniera molto più esplicita ("Ne di sangue son paghi giammai, e si chiaman ministri del ciel!")

In fin dei conti, l'efficacia drammatica del Don Carlos poggia sulla lotta già persa in partenza degli "eroi" (Carlos, Posa, Elisabetta) contro forze negative soverchianti, un concetto tradizionalmente romantico, non certo innovativo ma dopotutto stiamo parlando di un bastione dell'opera romantica ottocentesca; sullo sfondo, le dinamiche politiche tra costituzionalismo/liberalismo (Posa), assolutismo (Filippo II) e potere ecclesiastico (grande inquisitore) e in questo, la visione schilleriana/verdiana è sicuramente moderna. Insomma, sono tre ore e mezza / quattro ore, a seconda della versione veramente dense, ma dense, dense, dense, in cui personaggi che oggi sono poco più che ritratti e sbiadite nozioni storiche prendono autenticamente vita, plasmati da un Verdi letteralmente infuocato; cosa chiedere di più?


Carico i commenti... con calma