L’ambiguità è un fenomeno intrinseco collegato alla testualità e alla comunicazione. Il patrimonio linguistico è diverso da individuo a individuo ciò vuol dire che il significato che attribuisce un soggetto potrebbe non corrispondere all’interpretazione data da un altro.

E’ da escludere che Russ Rankin quando fondò nel lontano 1986 i Good Riddance potesse immaginare di ritrovarsi con un nome che diventò di dominio mediatico per altri motivi a causa dell’omonimia con una canzoncina allegra di un celebre gruppo di Berkeley, di un decennio più tardi. Proprio loro che nello stesso periodo, ironia della sorte licenziavano quel concentrato di rabbia schiumosa e ignorante che era “Operation Phoenix”. Proprio l’antitesi, altro che anti-camera di salottini buoni con specchi riflettenti e cangianti pronti all’uso e sigaroni pieni di banconote.

Ora messe da parte le chiacchere e senza magari squilli di trombe loro i Good Riddance veri sono tornati e dopo i vari tour, in cui hanno rimesso in moto il motore, quest’anno hanno ingranato definitivamente con “Peace In Our Time” dopo 9 anni dal precedente “My Republic”.

Dopo attenti ascolti, si può sentenziare che è un disco intelligente, che sa dove andare a colpire con stile, senza strafare (insomma mica sono gli A Wilhelm Scream!) e che sa all’occorrenza scalare le marcie facendo tirare il fiato.

14 pezzi totale 26 minuti e 58 secondi, la media di 2 minuti per canzone. Il cronometro è qualcosa di oggettivo, non mente mai.

Le linee di chitarra nervose di Luke e le pelli agitate dal fido Sean Sellers aprono “Disputatio”. C’è tensione, c’è velocità, c’è la voce ruvida ma melodica di Russ...insomma il loro marchio di fabbrica è tutto qui. “Contrition” è un boccone amaro disilluso sparato alla velocità di un frecciarossa e complice anche un ritornello terribilmente azzeccato e l’assolino finale prende il cuore e scala le classifiche.

Si parlava di un disco con ratio ed ecco arrivare “Half Misures” e la sua sorella più fragile "Grace And Virtue" che tengono la corda tesa, riuscendo allo stesso tempo a stemperare la foga delle altre tracce.

Poi altre mazzate “Dry Season” con il suo bridge sanguinante e una adrenalinica “No Greater Fight” una riflessione sui tempi odierni ed un invito a muoversi adesso prima che sia troppo tardi e garantire un futuro ai nostri figli. Tutto ciò a ricordarci nel 2015 la bontà della proposta e l’inutilità glam degli Strung Out.

Ma i Good Riddance a dispetto dei testi hanno anche un’anima più conciliante e levigata che riesce a ricordare una grande band seminale quale i Descendents su “Washed Away”. Non è un caso che dietro questo lavoro ci sia un guru come Bill Stevenson, di cui non serve qui alcun accenno biografico.

Leggevo in giro come “My Republic” da alcuni sia stato bollato come troppo melodico e quindi il loro peggiore…eresia!

Ora il punto è sostanzialmente uno: bisogna sapere cosa si cerca.
I Good Riddance sono tendenzialmente degli animali da palco, per cui sicuramente il messaggio conta più della forma e delle canzoni pronte e impacchettate da imparare a memoria in vista dei concerti.

“Peace In Our Time” è il grimaldello che scardina la serratura trovando il giusto compromesso tra liriche e rabbia e una discreta, ma mai eccessiva dose di sing-along. Tanto è e tanto basta per tenerli sulla torre.

La sincerità è una virtù che va premiata.

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