Un album unitario non è per forza monotono; uno vario non è per forza slegato.

Il precedente lavoro dei Grandaddy, The Sophtware Slump, è uno di quegli album - rari capolavori - che senza scadere nella ripetitività esprimono un concept proprio, innovativo nell'ispirazione e nelle tematiche (nella fattispecie, il crollo della tecnologia espresso dalle strane sonorità lo-fi dei rockers di Modesto, CA).

The Sophtware Slump è un capolavoro; Sumday non lo è.
Tanto per essere chiari.
È un buon album, ma non è quello con cui i cinque barbuti "nonnini" scrivono la loro pagina nella storia della musica.

Ci sono tutti gli ottimi ingredienti del loro indie rock: le distorsioni gentili, il lieve scazzo alla Pavement (cui, a mio avviso, sono superiori seppur debitori), le scale ripetitive ma celestiali della tastierina, e soprattutto la voce di Jason Lytle - un timbro leggero e inventivo.
Manca, appunto, l'invenzione che era lecito attendersi dalla loro genialità.

Le tracce, specie nella prima parte (I'm On Standby, The Go In The Go-For-It, The Group Who Couldn't Say, Lost On Yer Merry Way), si susseguono riproponendo in maniera (mi duole dirlo) un po' piatta la formula cui The Sophtware Slump – ma anche il primo, Under The Western Freeway – alludeva pur senza mai forzarla.

L'album si riprende un po' nella seconda parte, dopo El Caminos In The West, che insieme alla bellissima prima traccia Now It's On riscrive in maniera piena la vivacità dell’anima californiana del gruppo, e soprattutto con Saddest Vacant Lot In All The World (quando una melodia è così semplice ti emoziona) e The Warming Sun – l'unica vera invenzione dell'album.

Per chi adora i Grandaddy come il sottoscritto, insomma, Sumday è un must. Nell'ottica della loro storia di gruppo, comunque, non sarà certo così il "giorno delle somme".

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