A Guillermo gli si vuole bene, sempre e comunque. È un amico fidato, sai che non ti può tradire. L'identità che condividiamo (noi e lui) è incisa sulla pelle, vergata con il sangue. È tatuata nel cuore. Un cuore popolato di fauni, uomini diavolo, amanti-anfibi, ma anche colossali mecha che marciano lentissimamente nell'oceano per affrontare mostri altrettanto giganteschi.

E come succede con gli amici, abbiamo imparato a conoscerne i difetti, a sondarne i limiti, a comprendere che a volte la sua grandiosità estetica non si accorda a una vera necessità di comunicare con lo spettatore, se non per ribadire la sua bravura. Quella che è mancata, in alcuni casi, è una storia degna di essere raccontata, bella anche se privata di orpelli e maschere, colori e rifiniture.

Una mancanza che non si può di certo imputare a Nightmare Alley. Partendo dal romanzo di Gresham, già adattato per il grande schermo nel 1947, Guillermo stupisce per la solidità e l'asciuttezza formale del suo lavoro. Come se il bambino sognante, sperduto nei suoi mondi gotici, si fosse infine risvegliato alla vita reale, accettando di fare i conti con gli uomini e scoprendo che molto spesso possono essere più mostruosi dei mostri stessi.

Personaggi icastici, ricchi sul piano umano e iconico, espressivi, che sembrano modellati come le statue di un artista abituato a realizzare creature fantastiche in tre dimensioni. Del Toro tratta gli uomini come fossero fauni, e per questo riesce a costruirli così bene: ne coglie le profonde deformazioni morali, amplifica le storture, fa brillare tutte le mostruosità che portano con loro, più o meno velate.

Una vicenda dove genialità e mascalzonaggine si toccano continuamente, dove la linea di demarcazione tra le luci della ribalta e la voragine della miseria è sempre molto sottile. Un uomo che pur nelle sue grandi doti resta un popolano bramoso di soldi e nient'altro, ingannatore destinato a essere ingannato. L'ampia durata (forse eccessiva) del film si articola in due sezioni narrative tra le quali intercorrono due anni: la storia di ascesa e caduta non è sorprendente, ma risulta godibile proprio per le ricche cesellature registiche, per la dovizia di sfumature (e suggestioni sempre un po' iperboliche) che ogni volta viene dispensata. La galleria di personaggi è un po' buffonesca, un po' caricaturale, ma sa anche lavorare di fino su contrasti e giochi di potere, ricatti psicologici e paure.

C'è qualcosa di più: è la perizia del copione, l'armonia del montaggio, l'esattezza delle inquadrature che ci trascinano in un sogno-incubo sempre più terrificante e amorale, sublimato in alcuni istanti dove la violenza torna macabra e riaccende tutte le spie del nostro sentimento per il cinema. Bastano pochi secondi e tutto il costrutto, accuratamente disposto nelle due ore precedenti, si incendia di una crudeltà quasi insospettabile fino a quel momento.

Qualche errore c'è, alcuni passaggi finali sono poco coerenti, ma il sapore che rimane in bocca è l'amaro quasi osceno che ci prende di fronte alla spietatezza della vita, che qui ha un suo doppio efficacissimo nel distacco assoluto dell'autore rispetto alle sorti del suo protagonista. Sembra quasi voler infierire, quando si avvicina per scrutare i suoi occhi ormai intrisi di follia.

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