Greg è Greg, non c'è niente da fare. È finito da un po' il concerto, gli artisti stanno raggiungendo il meritato riposo, sciamano dalla tenda lato palco dove avranno sorseggiato qualcosa di alcolico. C'è aria di notte tarda, un venticello che mi ricorda il sudore abbondante di cui ho condito la maglia. Lo vedo, in mezzo agli altri, la sua presenza imponente, e mentre stringo la mia copia di “Gentlemen” e una penna a mo' di spada e scudo inizio ad urlare come un quindicenne, improvvisando un inglese alla Totò: “Cam hiar, uan autograaf”. Si avvicina, con il sorriso stampato sul faccione, si sorbisce la mia leccata su quanto è grande e figo, scrive sulla copertina (uno sgorbio orribile, nessuno crederà mai che sia una firma, manco io ci credo, se è per questo), si accosta alla mia ragazza e che ti tira fuori dal cilindro? Un baciamano. Semplice, romantico, improvviso e un filino folle, dato il contesto. Greg è Greg, cacchio.

Rewind. Inizio serata. Macchina nel traffico romano delle otto di una domenica sera. Penso di essere in ritardo. L'informatore di turno parlava delle 21 come ora d'inizio. Naturalmente mentiva: quando arrivo davanti a me trovo il palco e pochi fan agguerriti a fare picchetto. Guadagnamo un posto laterale avanzato e mi preparo all'attesa. Puntini puntini.
Sono le undici quando (con un'ora di ritardo accademico) si decidono ad aprire le danze. Cesare Zappalà, tutto baffi e braccia aperte, annuncia “i suoi fratelli”. Eccoli: c'è il simpatico e scalmanato ciccione, ugola potente, sigaretta quando può non cantare. Sa qualche parola in italiano e non esita a sfoggiarla. Si chiama Greg, e si porta dietro un tipo strano, molto timido, in abito scuro. Sembra non cammini, ma fluttui sul palco. La maggior parte delle persone si accanisce in ipotesi a senso unico su un carrello motorizzato che lo trasporterebbe fino al microfono, altrimenti per lui irraggiungibile. È alto, capelli che gli coprono gli occhi, la definizione umana della verticalità. Si chiama Mark.

Prima canzone. Greg grida, si sente solo lui. Intorno un gruppetto di nome Afterhours fa da orchestrina di accompagnamento. Poi il timido, l'autistico, l'altro, si decide a rompere il ghiaccio. E ci prende allo stomaco, ci ammalia. Non muove la bocca, ma quel che esce da lui è un suono potente, cavernoso, quasi primordiale, nero come il suo padrone. Una forza addomesticata e sinistra. Le canzoni scivolano via, stilose, mentre seguiamo rapiti, mentre il buon Ciffo è aiutato dal violoncello di una gentile damigella e Manuel si accanisce sulla tastiera, spandendo capelli lunghi come un mocho.
Poi il momento. Lo aspettavo. Da tempo. Non osavo sperarlo. Una canzone da Gentlemen. E che pezzo! “What Jail Is Like”. Cantata dai fratelli, in alternanza. Non la sento benissimo solo perché sono impegnato a gridarla. Segue la qotsiana "Autopilot", quindi qualcosa dei Twilight Singers ( "Strange Fruit" da "She Loves You" e mi sa un pezzo da "Blackberry Belle" ), poi una "Where Did You Sleep Last Night" parecchio canticchiata dai mei vicini di ressa. Quando sto iniziando a sperare che durino altre tre ore, Greg saluta dicendo "Cy vediamou dopou" o qualcosa di simile. Peccato.
Manuel prende le redini con il suo tipico “ciao” con polpetta, cravatta rossa su camicia nera. Sorriso da “ultimo concerto del tour”. Parte la scaletta ormai abituale: quasi tutto l'ultimo album, con inizio per il nuovo singolo, “La vedova bianca”, poi puntate al passato per "Rapace" e "Male di Miele", "Sui giovani d'oggi ci scatarro su", "Strategie", "Dea" (con Ciffo alla voce), una spruzzata di "Quello che non c'è", mentre "Non è per sempre" non è per stasera. Sarà il confronto con la precedente performance dei "fratelli", saranno le stelle, ma oggi l'Agnelli sembra un po' stanco: voce che arranca un po' negli acuti e si accanisce forse troppo sul tipico ringhiare sporco di certi pezzi.
Intorno a me, alle spinte oceaniche di un pogo particolarmente violento, si aggiunge la simpatica attività aerea di un fan (sì, sempre e solo uno) in vena di crowd surfing. Intanto Manuel ringrazia più che può, sorride e scherza, ad un certo punto si lascia andare all'attualità nominando New Orleans, pratica con convinzione il suo ormai famoso auto-sputo, duetta con Greg (che al solito non dice di no al ruolo di chitarrista aggiunto: ma Ciccarelli, già controfigura di Iriondo, che ne pensa e, soprattutto, che ci sta a fare?).
Scena da un idillio: mentre sto cercando di resistere all'ennesimo assalto degli unni dietro di me, mi accorgo di Greg sotto il palco, sigaretta accesa. Si è preso una pausa dall'attività on stage e guarda l'amico italiano, canta una sua canzone, allarga le braccia quando il milanese si avvicina divertito. A sugello dell'unione, nelle battute finali, “Voglio una pelle splendida”, un must quando i due si esibiscono insieme. Al solito, fa la sua porca figura. E ci comunica che la serata si sta esaurendo.

Tecnici corrono come formiche in un picnic: torna il secondo microfono e si materializza nuovamente Mark, per due (tre?) pezzi insieme al fratello acquisito. Guardo la sua figura spettrale ancora una volta, affascinato. Quando gli strumenti tacciono definitivamente, i soliti saluti, mani al cielo, in aria, sorrisi. Lui no, Mr. Lanegan ruota su sé stesso e si avvia, naturalmente senza muovere un muscolo, verso l'uscita, verso il suo personale universo.

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