“Nell'affresco sono una delle figure di sfondo” (Luther Blissett da “Q”.)

Recentemente un mio amico mi ha fatto notare come il difetto più grande di un film, pur bellissimo, come “La Grande Bellezza” stia nell’abuso che il titolo ha subito, non sempre in modo pertinente, nell’essere usato come metafora di qualsiasi bruttura di questo paese.  Seguendo un pensiero parallelo io mi sono concentrato sul fatto che il destino di questo film sia (almeno nell’immediato) nel non essere, in modo trasversale, capito. Dalla fauna umana cui è ispirato (la lista è lunga, fate voi), da chi nel giudizio si ferma alla beffa dell’interessato mecenatismo della Medusa (è così di “italosinistraradicale” questa cosa che quasi mi ha commosso) come se, con le dovute proporzioni, dovessimo giudicare Piero della Francesca (e ne cito uno a caso) perché “servitore” di lestofanti come Federico da Montefeltro o Sigismondo Malatesta. Hanno avuto da ridire per giunta pure certi estimatori di Sorrentino (ed io inconsapevolmente non devo esserlo mai stato, evidentemente ma, d’altronde, non sono mai stato l’uomo di una volta).

Non lo sono mai stato. Questo mi passa per la mente non perché nel momento in cui scrivo il mio lettore sta passando la versione 2.0 di “Hai paura del buio?” ma perché non mi sono mai arreso al declassamento di Plutone e, come lui, so che il Sole e gli altri pianeti mi abbracciano ancora e se ne fregano di noi stupidi umani e delle nostre linee immaginarie (cit.). Curioso, però, il parallelismo con il film di Sorrentino. Ci sono persone che non hanno ancora capito che Agnelli nel ’97 si riferiva proprio a loro (sì, amichetto che riesci a definire te stesso solo tramite i tuoi gusti, sto parlando di te, anche se so che non lo capirai).

Se vi siete chiesti cosa "c'azzecca" tutto questo con Memling (a parte che certifica la vostra normalità) posso rispondere invitandovi a dimenticare che non vi piace l’arte sacra (è solo una questione di linguaggio: nel ‘400 e in altri periodi storici era la via più facile per condividere questioni anche extra-religiose come oggi i graffiti di Banksy sono collaterali al quadro socio-politico) e concentrarvi solo sullo sfondo di quest'opera. Dimenticando la mistica dolcezza che emana la scena del pannello centrale, la violenza drammatica e tutto il sottotesto simbolico di quello di sinistra che si contrappone alla metafisica tipicamente biblica di quello di destra. Lasciate stare i colori pieni e trionfali che esaltano gli arredi, opulenti e sfarzosi, posti a icona di una Brugge che stava per vivere l’ultimo raggio di vera gloria (a proposito di comunicazione extra-religiosa) prima che la Storia la facesse diventare prima “la Morta” e poi la marmorizzasse in una dimensione tipicamente turistica ben ritratta da quel piccolo gioiello che è “In Bruges”.  Un quadro va guardato a lungo e “daverizzandovi” su quello sfondo è inevitabile che le vertigini della profondità improvvisa rispetto alle figure in primo piano, mescolate a un uso incongruo delle proporzioni prospettiche, invece di portare a chiedervi se questa magnifica imperfezione sia volontaria o no finisca per spedirvi in un altro universo fatto di contemplazione, non necessariamente religiosa.

Poco importa il significato simbolico di una delle Vergini più eteree mai raffigurate e del bambino che misticamente porge l’anello a Santa Caterina, delle vicende agiografiche degli altri tre santi (sette se si considerano anche quelli dipinti nel retro degli scomparti laterali con i committenti) perché è la visione imperfetta e abbacinante che colpisce occhi e cuore lasciando letteralmente cristallizzati a essere l’unico linguaggio possibile: verticale e caleidoscopico.

E’ lo stesso concetto di “bellezza” che trasuda da questo trittico che, solo perché l’Arte deve essere ambigua per definizione, forza a vedere un messaggio assai laico e civile in così tanta pietà religiosa: ora potete tornare su e leggere il lungo incipit di questo scritto.

E’ un olio su tavola che tra tutti i tre pannelli copre in larghezza circa tre metri e trenta centimetri e in altezza un metro e ottanta e si trova all’Ospedale di San Giovanni (sede del Memlingmuseum) a Brugge. Si suppone che il grande tedesco, dotato di un’eleganza intima ma mai ermetica, “naturalizzato” fiammingo lo abbia dipinto nella seconda metà degli anni ’70 del ‘400. E’ una delle opere simbolo nella seconda ondata dei cosiddetti primitivi fiamminghi, una di quelle che chiude definitivamente (uno sguardo diretto a un’epoca che si rifiutava di morire mentre già si stava sgretolando) la stagione di fioritura del mecenatismo mercantile in Brugge. Di lì a poco le Fiandre vivranno uno dei periodi più funesti della loro storia e anche l’arte di quell’angolo di mondo ne risentirà: di certo non dal punto di vista qualitativo ma sicuramente espressivo che porterà tra gli altri a Massys, Bosch, Brueghel il Vecchio per chiudersi con la definitiva divisione del ‘600 che vedrà gli olandesi come Rembrandt da una parte e il barocco di Rubens dall’altra.
Un’opera del suo tempo ma che è prepotentemente anche del nostro.

Mo.

Ps. Sarà una "furbata" commerciale ma il “remake” di “Hai paura del buio?” è un buon disco con qualche perla meritevole (tipo il rifacimento quasi gothic dei Bachi da Pietra di “Punto G” o il paradossale punk giovanilistico dei Ministri in “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” e in più “Male di Miele” sarebbe piaciuta a Trellheim) ma che forse poteva esser un po’ più coraggioso: chiamare a collaborare qualcuno fuori dal solito “giro” e/o dal solito sottobosco culturale di riferimento per esempio (che il “cantato” sguaiato di Capovilla ormai lo conosciamo tutti). Certo, ci sono Bennato e Finardi mi direte.  Io vi rispondo: insomma...

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