A philosophic music-man seduced into carpentry. *

Mettetevi comodi. Non sarò breve.

Cosa sta facendo quell’uomo, chino su fogli e strani spartiti, nel cantiere navale (abbandonato dalla fine della seconda guerra mondiale) che ha eletto, abusivamente, a propria dimora e laboratorio?
E cosa sono le strane creature che lo attorniano, quelle sculture vagamente simili a improbabili strumenti, che potrebbero essere state partorite dalla fantasia di un Tinguely in vacanza nei territori del suono?
La risposta è semplice: sta operando una rivoluzione microtonale della scala, dove l’ottava è suddivisa in 43 intervalli. **
E le macchine che lo circondano sono gli strumenti che gli consentiranno di applicarla.

Aveva iniziato apportando modifiche a canonici strumenti tradizionali. Poi, mettendo mano a quelli provenienti da culture lontane, nello spazio e nel tempo (Asia, Africa, antica Grecia). Ma il disegno, che il reticolo di esperienze e visioni che lo attraversava stava dispiegando (più vasto di quanto si possa raccontare in qualche riga), aveva bisogno di concretizzarsi anche nella materia. E così, nel corso del tempo, videro la luce i suoi strumenti musicali. Che vi consiglio di guardare e suonare.

Da dove viene quell’uomo?

Viene dalle strade, meglio, dalle rotaie. Dalla vita errante dell’hobo.
Da una delle epopee più sinceramente americane, fatta di rotte che si intersecano seguendo la strada ferrata, di destini che si incrociano sfuggendo, di viaggi clandestini dentro la vastità di una nazione che è una e centomila.
Parte di questa vita, dei dialoghi raccolti tra altri che, come lui, “a cavallo delle rotaie” percorrevano l’America, diventeranno sostanza della sua opera.
Non solo come testo, ma anche come suono. Perché quel che in realtà stava erigendo è un immenso scenario, un inesauribile teatro sonoro, dove anche la “corporeità” risonante della parola, della voce, del parlato, trovano posto.

Viene da una formazione classica e a quella fa riferimento, ma introducendo una personalissima concezione dell’esperienza sonora come portatrice di storia, elevando a medesima dignità ogni suono, in una produzione che spazia dalle composizioni brevi al "music-dance drama" (King Oedipus - 1951), alla sonorizzazione di pellicole, alla “dance satire” (The Bewitched 1954-’55).
E che lo vede autore, costruttore di strumenti ed esecutore delle proprie musiche, attorniato da quella che diverrà con il tempo una vera comunità di musicisti e collaboratori disposti ad intraprendere un avventuroso viaggio dentro la nuova musica americana.
In un ibridazione costante della “cultura alta” con quella “pop”, pur iniziando il proprio viaggio ben prima che si affacciasse alla ribalta il mito della Beat Generation.
Con un’attenzione allora inedita per le culture musicali d’oriente, in enorme anticipo sulle derive della cosiddetta World Music. Ed anche sulla scuola minimalista, che dalle medesime fonti ha tratto successivamente linfa e i cui esponenti hanno guardato con serio interesse all’opera di Partch.

Perché parlare di lui?

A parte quanto già detto, c’è una ragione sentimentale, e per me è sufficiente.
Una tale cocciuta creazione di un mondo non può che suscitare il mio interesse, una fascinazione alla quale cedo volentieri.
Ma c’è anche una ragione “etica”.
In un “luogo” come questo si incontrano migliaia di dischi, spesso elevati al rango di capolavori, e nella vorticosa e famelica macchina delle odierne produzioni le gesta (amabilissime, sia inteso) di qualche giovanotto che si cimenta, nel produrre suoni, anche con alcuni oggetti inusuali (oltre che con la chitarrina), vengono a volte descritte come la nuova frontiera di chissà quale avanguardia.
Ecco, l’opera di Harry Partch (che oltre 60 anni fa iniziava a inglobare in sé la vita, l’organicità del suono) all’epoca osteggiata, dileggiata e snobbata da un certo mondo accademico ma anche seguita, citata e saccheggiata da molti musicisti e compositori, deve avere almeno un angolino, tra le migliaia di pagine di DeBaser, dove depositare una traccia.
Una traccia che qualche passante avrà forse voglia di seguire, per perdersi nel mondo parallelo che Harry allestì anche per noi.

Io ho incontrato i suoni prodotti da quelle marimbe sovradimensionate, da tubi, serbatoi di aeroplani e campane di vetro, una decina d’anni fa, ascoltando per caso un cd edito dalla CRI, con il semplice titolo “The Music of Harry Partch”. Un ottimo compendio, per chi volesse avvicinarsi al suo lavoro, che avrei voluto suggerirvi. Purtroppo, dopo un’infruttuosa ricerca, ho scoperto che non esiste più. Ho contattato quindi la New World Recording (che ha rilevato il catalogo della Composers Recordings) e il gentilissimo Mr. Paul M. Tai mi ha risposto: “...the title you mention will not be reissued because the music it contained is included on the four discs listed above...”.

Così sto ascoltando il volume 2 della serie di 4 cd che sono stati dati alle stampe e distribuiti in Italia da “info@silenzio-distribuzione.it” (15 €).
E l’ascolto conferma il ricordo, a partire dal lungo brano che apre la composizione, un lavoro autobiografico, un racconto per immagini sonore, che include parti parlate nelle inflessioni tipiche dei vagabondi incontrati negli anni ’40, immerse nell’atmosfera quasi espressionista prodotta dal suono di alcuni degli strumenti inventati da Partch, per sfociare in brevi parti cantate, spezzate dalla ritmica percussiva di marimba o dal fischio di un treno, in un susseguirsi di vuoti e pieni, di quadri cangianti dove affiora a tratti il pizzicato incerto di qualche corda... Per giungere all’ultimo brano, che racchiude parte di un lavoro di preparazione del suo dramma "Delusion of the Fury”, e dove la sperimentazione sulle percussioni, sulla particolare tecnica strumentale come elemento stesso della composizione, prende forma in un work in progress che durò un paio d’anni e che ci consente oggi di trascorrere 35 minuti in uno spazio dominato dai rimbalzi del suono, dai timbri degli strumenti, quei buffi animali sonori, che riusciamo quasi ad intravedere, tra i quali s’affaccia uno scacciapensieri, o forse la sua pachidermica versione “Partchiana”.
Dentro il “tunnel del rumore” di Harry riesco ad ascoltare i suoi “scherzi” con un atteggiamento che somiglia molto all’ingenuità, quasi con lo stesso stupore che devono aver provato coloro che lo attraversarono molti anni fa.
E, per quel che mi riguarda, non è poco.

Dopo questo irrisolto tentativo di apologia, mi resta un’ultima carta, per invitarvi a fare un tuffo nel passato, e nel “futuro” che vi si cela, dentro l’opera di Partch.
E la gioco ora, quest’ultima carta. So che saranno assai più convincenti ed efficaci le parole di un simpatico signore, pronunciate dalla rauca voce che molti qui adorano.
Lascio quindi a lui la chiusa.

“...Il nuovo cd è stato ripubblicato e il suono è eccellente. Un'eccellente introduzione alla sua intera opera. Comincia con Volume One e ne sarai contagiato. Lui ha lavorato in giro, come un nomade, per metà della sua vita, ed è stato tra quegli accademici trasgressivi che operano fuori dagli schemi. Per questo avevano paura di lui e fingevano di ammirarlo. Come la maggior parte degli innovatori, è diventato la ghiaia sul sentiero che la maggior parte delle persone percorre. Così lui è stato il precursore ed è stato calpestato dalla folla. Ma nessuno ha mai fatto da allora quello che ha fatto lui. L'idea di disegnare i propri strumenti, di suonarli e quindi di realizzarli esattamente nella misura voluta, di realizzare il proprio sistema musicale. È stato incredibile, soprattutto per il periodo in cui lo stava facendo. Era abbastanza sovversivo. È sempre affascinante ascoltare qualcosa che non è perfetto ed evoluto come un normale strumento. È come se colpissi un trattore o una porta di un deposito di rifiuti. O come se tu fossi ancora in cucina. La musica ha quella 'tessitura' extra..."

Tom Waits, tratto da http://www.sonicrocket.com/beatstream/stardust/waits/

* “I am not an instrument-builder, but a philosophic music-man seduced into carpentry.”
Harry Partch (1901-1974)

** Teorie espresse in “Genesis of the Music” pubblicato nel 1949.

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