Devo aver già scritto, su questo sito, di come spesso mi sento parte di un universo dove centri gravitazionali mi spingono a muovermi attorno ad orbite apparentemente slegate tra loro. Come un satellite troiano inconsapevole ma mai solo.

Potrei scrivere una di quelle recensioni in cui il fervore enciclopedico mi porterebbe ad annoiarvi (ma per quello vi rimando alle info in cui allegherò l’esauriente pagina wiki) o potrei lasciarmi andare a sensazioni “atmosferointimiste” parlandovi di questo Maggio dal meteo instabile, della crisi del pensiero occidentale e di come quello orientale non dia le risposte che vogliamo sentire, di viaggi della disperazione adolescenziale e/o senile o di come “Beethoven sia contemporaneamente il Pre-romanticismo, il Romanticismo e il Post-romanticismo” (Theodor Adorno).

In questa indecisione non mi resta che fare la conta di quel che c’è e di quel che non c’è.

Ci sono tre movimenti (tutti in Lento) per due fagotti, due controfagotti, quattro tromboni (questi otto solo nel primo), quattro corni, quattro flauti, quattro clarinetti, un piano, un’arpa, una sezione standard di cordofoni e un soprano solista.

Ci sono le più disparate efferatezze ermeneutiche di una buona parte della vita politica e sociale dell’Europa del dopo Guerra e oltre, fino alla metà degli anni ’70.

Non ci sono i virtuosismi armonici della Classica ma nemmeno certe frivole acrobazie di molta “avanguardistica” contemporanea.

Non c’è nessun tentativo di catarsi: solo minimali “canti lamentosi.

In tempi in cui il termine bello ha perso ogni valenza non mi vergogno di scrivere che il primo movimento è di una bellezza sconvolgente e unilaterale: qualcosa che costringe a svuotarti.

Mo.

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