So bene che il celtic rock di questi tempi non è che goda di grande apprezzamento, perlomeno non tra le debaseriane genti. La colpa è di un incedere e di un'eloquenza certamente troppo epici e fieri, nonché attaccati agli anni ottanta, consegnati a quella decade in maniera irreversibile. Contribuisce alla fissione col periodo storico anche una serietà d'intenti e propositi talmente in controtendenza rispetto ad un popolo di paninari (e metallari in pantaloni di pelle rosa shocking) che ha finito per rendere le bands di rock celtico rappresentative "dell'altra faccia degli anni ottanta", quella seria, e quindi pur sempre rappresentativa "di" quegli anni.

Parlare dunque di questo sottogenere equivale pressoché a discorrere di musica fuori moda, che piace a pochi e che interessa a nessuno o quasi; per me che ne scrivo equivale a ricevere, se mi va bene, centoventi visite e due commenti. Eppure ci fu un tempo in cui se qualcuno (Giov) dava cinque stelle ad "Acthung Baby", pochi erano coloro che trovavano di che discordare...

Le cause del disaffezionamento al genere sono da ricercare un po' dappertutto, dal cambio di moda e sonorità nel panorama rock, nell'inevitabile invecchiamento dei volti più piacioni e vendibili, ma ritengo sia da ricercare anche se non soprattutto nella restante parte della discografia dei signori Vox, autori, da quel celebre disco fino ai giorni nostri, di tutta una serie di lavori che del rock erano pressoché dimentichi, e che tra l'altro vanno dal mediocre all'insufficiente.

Certamente incoraggiati dal variegato "Achtung Baby", i padroni di Dublino si sono limitati a fare li (esperimen-)'tacci loro, cambiando anche monicker in un'occasione, allontandosi per giunta dai loro grandi produttori, finendo per provarci perfino colla pop-dance... Quando hanno tentato riconciliazioni col passato hanno fallito, e neanche tanto clamorosamente tra l'altro, ché in fin dei conti dagli U2 nessuno o quasi si aspettava più nulla, se non al limite un paio di videoclips azzeccati, un megatour che per protagonista ha un maxischermo, le solite pose pseudo-pacifiste pseudo-ambientaliste e, soprattutto, una nuova collezione di occhiali da sole.

Chissà se a Vox, tra una scorsa all'ultimo numero di Forbes, una sgommata in Maserati ed una tirata Dublino-Montecarlo sul panfilo, viene da pensare ancora a quanto bravi fossero stati, lui e i suoi compagni di squadra, nel lontanissimo 1991. A me che per il momento non dispongo di tutta questa abbondanza, ogni tanto viene da pensarci, e forse sono l'unico di DeBaser a farlo nell'anno del Signore 2008.

Eppure "Achtung Baby" ebbe un capitolo secondo, l'eccellenza in esso contenuta fu eguagliata. Non certo dai quattro magnati, ma dalla band da essi stessi scoperta, lanciata e prodotta. Nel 1998, "Born" degli Hothouse Flowers era lì a dimostrare che essere gli U2 era ancora possibile.

"Born" ha tutto quel che dovrebbe avere il perfetto disco di post-celtic rock. Il sentimento di riconciliazione panica, va detto, è sempre al primo posto e domina assoluto per tutto il disco, come da miglior tradizione per i dublinesi: basta ascoltare l'opener, "You Can Love Me Now", per realizzare che le cose sono messe in tal senso. "Forever More" è il tepore d'un sorso di whiskey nelle membra d'un barbone che si felicita d'essere sopravvissuto all'ennesima notte all'addiaccio. "Born" è il toy-pop guitar-based liofilizzato da un'azienda che fa latte in polvere. "Used To Call It Love" è l'epic rock più duro; "At Last" ha ritornelli orchestrali e sbalorditivi.

Se Vox ha duettato con Sinatra (ma anche con Wycleaf Jean e Pavarotti), ha invidiato i crooners, ha sempre provato col soul, s'è travestito da membro dei Village People, gli Hothouse Flowers in "Find The Time" diventano Barry White ed orchestra, e l'amore è nell'aria. In "Believe" ci sembra di trovarci ficcati dentro all'incubo megalopolitano di Sting (ed Eric Clapton) in "It's Probably Me". Oltre all'opener, anche la chiusura è affidata alla platealità christian rock, nella ballad "Learning To Walk".

Un disco variegato ma dall'importante minimo comune denominatore, suonato come farebbe una vera band di vero rock, distante per questo dallo spiritual-poprock degli esordi, e cantato da un vocalist di prim'ordine, capace di tirar fuori vocalizzi e parti che più strambe sono e più sono riuscite e felici, nondimeno dotato d'un'espressività e d'un'eloquenza che nulla ha a che vedere con i due urli stecca-limit e i tre falsetti di Bono Vox, e che altrettanto poco ha a che fare con le di lui tipiche pose da mitico, lui che anche se gridava al cielo "No More" a me sembrava stesse dicendo "I'm The Coolest Guy In The Universe".

Per chi ne avesse ancora voglia, quel modo di far musica non morì nel '91 con "One" e compagne: qui c'è il disco di una band di gente in grazia di Dio pronto a conquistarci. Achtung.

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