'GRIND YOUR MOTHER' COLOGNE (BS) 07-07-06
Arriva un po’ in ritardo il live report di questo festival di due giorni dedicato a tutti gli appassionati nell’ambito del Death Grind e organizzato dalla nostranissima The Spew Records; purtroppo ho potuto assistere solo al primo dei due concerti che vedeva in line up i Cibo, i Vomit The Soul, gli Hour Of Penance, i Cadaveric Crematorium, i Leng T‘che, i Sinister e niente meno che i Napalm Death. Ma andiamo con ordine…
Il posto non è proprio alla mano ma non è nemmeno tanto difficile da trovare: arrivando in auto si raggiunge facilmente dalla stazione di Brescia e, per quelli che amano il sapore delle ferrovie dello stato, c’è la stazione proprio a due passi dalla Birreria Music, il locale dove si svolge il concerto. Il costo del biglietto (25 Euro) sulle prime mi sembrava un po’ alto, ma considerato che all’interno si può mangiare a prezzi più che onesti, risulta nella media.
Nel paesetto, non lontano dal posto, c’è anche un albergo per chi (come il sottoscritto) non abbia voglia di farsi un tot di chilometri all’una di notte dopo un concerto di oltre sei ore. I cancelli dovrebbero essere aperti alle sedici ma a causa di qualche (consistente) ritardo si aprono alle diciotto, l’ora prevista per l’ inizio del concerto.
Il clima è tranquillo e non ci sono disordini di alcun genere; all’interno del locale, più spazioso di quanto possa sembrare da fuori, ci sono bancarelle che vendono cd e magliette veramente rari da trovare in giro e nell’intervallo di tempo che precede l’inizio del concerto ho l’occasione di fare qualche acquisto e di scambiare due parole con un membro dei Fleshless (che gestiva una delle bancarelle in attesa di suonare il giorno seguente). Fortunatamente gli organizzatori fanno in modo che il concerto inizi solo con una mezz’ora di ritardo sulla tabella di marcia e verso le diciotto e trenta si inizia a suonare.
CIBO
Sono i primi a salire sul palco e hanno il duro compito di aprire un concerto che vede come act principale i mitici Napalm Death: il quintetto viene dalla mia città (Torino) e li avevo già potuti apprezzare circa un anno e mezzo fa in un malfamatissimo locale della periferia. Il loro è un Grind Rock ad alto contenuto demenziale che ricorda vagamente il sound degli australiani Blood Duster: il pubblico, causa il nome poco evocativo, è freddino e di certo non facilita il compito a questi giovanissimi ragazzi che, tuttavia, si dimostra in grado di cambiare l’opinione di spettatori scettici e parecchio esigenti. Le canzoni proposte sono circa dieci di cui cinque abbastanza lunghe rispetto agli standard del Grind (a detta loro le canzoni più “etichettabili” cioè le più interessanti per le case discografiche). Finita la prima canzone, iniziano ad arrivare i consensi; i Cibo hanno ingranato bene, le teste cominciano a muoversi e la gente si lascia trascinare dalle grottesche canzoni dei cinque. La tecnica non è ai massimi livelli, ma i nostri suonano senza nemmeno una sbavatura risultando un gruppo serio nonostante alle prime armi: ottima la prova del singer, capace di passare senza problemi dagli screma più schizofrenici ad un discreto growling (più di rado) e affiancato in una canzone da Mariano, suo collega militante nei Septical Gorge (in programma per il giorno dopo). Anche gli altri membri, in primis il batterista, svolgono un buon lavoro mettendo ben in chiaro la loro matrice smaccatamente Punk; le ritmiche infatti si rifanno poco al metal e concedono pochissimi rallentamenti pur non toccando i picchi di velocità tipici dei gruppi Death Grind tradizionali. Indubbiamente la loro musica è molto divertente e spiritosa e anche il pubblico gli rende giustizia; una buona performance e canzoni accattivanti fanno dei Cibo degli ottimi opener, in constante miglioramento sotto il profilo tecnico e compositivo (sono migliorati molto rispetto a quando li avevo visti) e sinceramente godibili. Voto: 8
VOMIT THE SOUL
Brusco cambiamento di rotta: da un Grind rockeggiante si passa ad una proposta veramente intransigente e nera come la pece: i Vomit The Soul (anche titolo di una canzone dei 'Cannibal Corpse'), trio di Lecco, calcano il palco e dopo qualche arrangiamento tecnico scatenano l’inferno. Sinceramente non mi aspettavo che anche qui in Italia potesse trovare spazio una realtà musicale tanto feroce e violenta, molto simile a Devourment, Enmity e Disgorge americani; insomma il massacro più incondizionato e cieco. Personalmente avevo già sentito nominare questo gruppo ma non avevo mai potuto ascoltare niente, essendo i demo decisamente introvabili. Il cantante chitarrista Max (che in seguito mi concede una lunga chiacchierata) è eccezionale soprattutto sotto il profilo vocale; sicuramente si tratta de migliore di tutta la serata battendo di gran lunga anche la leggenda di Mark “Barney” Greenway; accanto ad un growl dei più bassi e bestiali in circolazione, troviamo aperture vocali che ci rimandano a Giorgio Pescatore (Gorge Fisher per i pignoli), arcimaestro della voce dei Cannibal Corpse. Ma al nostro conterraneo non manca nemmeno la perizia e, concentrato come appare nel suonare il suo strumento, da vita ad una performance parecchio tecnica e difficile, prodigandosi in un riffing ampolloso e pesantissimo. I suoi compagni sono altrettanto bravi e suonano il basso e la batteria con il giusto equilibrio tra passione e lucidità. Il pubblico è già abbastanza caldo e accoglie bene le torture sonore proposte da Max e soci: il Brutal regna sovrano per una mezz’oretta, le canzoni sono un buon numero, assolutamente spossanti sotto il profilo psico fisico ma curate e suonate bene. I gorgheggi del vocalist e la brutalità integralista del tris mi conducono ad uno stato estatico, quasi mistico; il complesso si dimostra competitivo a livello europeo e mondiale e tiene alto il vessillo del Brutal Death italiano. Bravo, bravi Voto: 9
HOUR OF PENANCE
I capitolini Hour Of Penance li avevo già conosciuti poco prima dell’inizio del concerto, quando ho comprato la loro maglietta: anche loro si dimostrano simpatici e alla mano e ci converso per qualche minuto. Quando salgono sul palco il pubblico è oramai pronto a dare il meglio; si inizia con un’intro dopodiché inizia quella che sarà, secondo me, la prestazione migliore di questa prima tornata. Il genere del quintetto è un Brutal Death un tantino meno estremo di quello dell’act precedente concedendosi qualche piccola apertura che invece non si trova nel sound dei Vomit The Soul: in ogni caso questi due gruppi hanno rappresentato il nocciolo più duro e maledettamente pesante della serata, regalando(mi) una massiccia dose di distruzione che tanto è cara alle mie orecchie (il genere preferito dal sottoscritto, in poche parole). Complice anche un maggiore tempo dell’esibizione, i romani ci danno dentro con canzoni potentissime e al contempo dall’elevatissimo tasso tecnico: le composizioni sono fedeli alle registrazioni in studio ma suonate con l’aumentata energia tipica dei concerti live. Il loro Brutal Death, decisamente più vicino alle nuove tendenze che non alla vecchia scuola, si basa su tempi assassini corredati di una notevole creatività da parte del drummer, un basso suonato con la maestria dei grandi nomi e le chitarre che snocciolano riff intricatissimi e potenti; il cantante si colloca un gradino sotto il sopraccitato singer dei Vomit The Soul per la minore versatilità, ma da comunque prova di grande resistenza e longevità. Da ricordare l’esecuzione ineccepibile di “Catatonia”, cover dei Suffocation, e di “Shreds Of Martyr”, canzone tra le loro più riuscite. Cos’altro si può dire per fare capire l’efficacia di questo show? Dirò solo che è stato l’ultimo act in cui il mio collo ce l’ha fatta a girare… poi è subentrato un lancinante dolore che mi ha tenuto distante dal palco per tutta la sera. Gli Hour Of Penance, come anche il gruppo che li ha preceduti, si consacrano come una band di professionisti, autori di una prestazione maiuscola, quella che forse meglio rispecchia il feeling della serata.
Voto: 9,5
CADAVERIC CREMATORIUM
Mi dispiace sempre dovere criticare pesantemente gruppi connazionali, ma ritengo che non sia giusto osannare complessi che non meritano il grande seguito che ottengono. I 'Cadaveric Crematorium' sono una band italiana che ha la presunzione di voler coniugare “res dissociabiles”, come diceva il buon Tacito riferendosi alla libertà e all’impero, ovvero il Brutal e la demenzialità. L’intento, oltre che temerario, è anche alquanto mal venuto e, invero, si risolve in una musica pesante il cui mood cupo viene spazzato via da una serie di cacchiate fuori del comune: ci tengo a precisare che non è Grind demenziale, ma Brutal Death demenziale, vale a dire un ossimoro, due cose che non possono convivere. Per farvi un esempio, i Cibo propongono un grind demenziale mentre i Vomit The Soul un Brutal Death molto pesante; i Cadaveric Crematorium optano per una via di mezzo e, secondo me, fanno un buco nell’acqua. Il pubblico invece sembra apprezzare, e parecchio, facendosi a parer mio influenzare più dalle (indubbiamente spassose) trovate sceniche dei nostri che non dalla musica in sé. Niente da dire sulle canzoni, ben suonate e scritte, ma l’ approccio è sbagliato e non mi convincono. Lo show si protrae per molto, troppo tempo, generando tempi morti dovuti alla ripetitività dei brani che mi fanno perdere il filo e distrarre parecchio: probabilmente, sentendo solo la musica senza sapere niente della loro “poetica” risulterebbero anche gradevoli, almeno per un orecchio allenato, ma vedendo come riescono a farsi beffe di questo genere non possono fare altro che seccarmi. Tuttavia per loro è un successo e abbandonano il palco a tesa alta: in conclusione, una performance buona rovinata (per me) dalla castroneria dei nostri, musicisti buoni ma inefficaci. Voto: 6,5
LENG T’CHE
Inizia a salire sul palco il primo dei tre gruppi stranieri della serata, i belga Leng T’Che, dedito ad uno strano mix tra Grind Rock e Death metal (in misura nettamente inferiore). Nonostante tutto, il pubblico si dimostra meno disponibile che non nei confronti dei complessi che hanno suonato in precedenza e ci mette un po’ a lasciarsi andare (insomma è il cantante ad invitare a fare un po’ più di casino). In compenso, loro sul palco non lesinano nel dare spettacolo e si rendono protagonisti dell’act più dinamico e vivace della serata (senza per questo rinunciare all’aspetto tecnico). Bravissimo il cantante, autore di una prestazione ottima anche se non all’ altezza dello stracitato Max dei Vomit The Soul. La band, giunta oramai al terzo Lp, decide di pubblicizzarlo in grande stile (compaiono alle pareti manifestini che ritraggono la sua copertina) e anche nella tracklist si nota che purtroppo la preferenza è caduta proprio sulle ultime canzoni, qualitativamente di molto inferiori a quelle dei primi lavori. Questo è essenzialmente ciò che penalizzerà molto questa performance, più intenta alla divulgazione del nuovo cd che non al soddisfare il desiderio del pubblico. Tutto sommato, però, i Leng T’che riescono a trasformare song che di per sé, su disco, sono solo sufficienti, in esplosioni vere e proprie: l’esecuzione è impeccabile e, per quanto il bagaglio tecnico necessario a suonarle sia decisamente meno oneroso di quello di altri gruppi della serata, risulta abbastanza tecnica e pulita. Si distingue il batterista, impegnato in ritmiche non complicatissime ma caratterizzate da un impatto di sicuro effetto. In conclusione lo show, durato circa un’ora, raggiunge i suoi obiettivi cioè quello di divertire e quello di vomitare sugli spettatori canzoni potenti e violente con il giusto tasso di ironia; sicuramente, con una scelta più oculata delle canzoni da eseguire, i nostri avrebbero potuto ottenere molto più di quanto non abbiano fatto.
PS; i Leng T’che sono assolutamente fusi, dentro e fuori dal palco… parola di Francesco Amadori
Voto: 8,5
SINISTER
Eccoli qua, una delle due “leggende” della serata, il gruppo olandese in circolazione dagli inizi della scorsa decade e autore di alcuni indiscussi capolavori del Death (“Hate” per citarne uno tra i tanti): sinceramente è stato più per loro che non per i Napalm Death che ho fatto trecento chilometri e non sono assolutamente stato ripagato per la mia puerile dedizione. Ma, di nuovo, andiamo con ordine. I Sinister sono oramai una band “sinistrata” (dopo questa potete anche crocifiggermi a testa in giù); dopo l’età dell’oro, durata all’incirca fino al 1996, per i nostri è iniziata un’epoca buia che li ha visti anche accogliere tra le loro file una donna (che, con tutto il rispetto per il gentil sesso, non è proprio la cosa più adatta da fare in un gruppo Death). Sovvenutogli che forse non era la scelta migliore, ma solo dopo avere dato alle stampe degli autentici scherzi musicali, hanno cortesemente congedato la donzella, sconvolgendo però la line up e praticamente rifondando i Sinister. E sono proprio questi nuovi Sinister quelli che ho visto io e quelli che, c’è da dirlo, mi hanno deluso. I quattro salgono sul palco dopo avere a lungo sistemato gli strumenti e già dalla prima canzone si nota che l’audio è di pessima qualità: i toni bassi sono eccessivamente evidenziati e causano una sgradevole sensazione alle orecchie che costringe, se non per pochi minuti o se non ubriachi, ad assistere all’act lontano dal palco (c’era anche chi aveva bevuto “solo una bottiglia di whisky” e se ne stava tranquillo a farsi maciullare i timpani). Come i Leng T’che, anche i quattro olandesi decidono di dare più spazio alle loro ultime creazioni di “Afterburner”, non brutte ma sicuramente lontane dai fasti del tempo passato: di “Hate” neanche una traccia, i nostri non accontentano chi, tra il pubblico, chiede a gran voce “To Mega Therion” o “Awaiting The Absu” (si, c’ero anche io, lo ammetto). Se quelli che entravano in contatto per la prima volta con la band rimangono soddisfatti da canzoni come “The Grey Massacre”, sicuramente i cultori traggono solo noia e disappunto, vedendo svanire traccia dopo traccia la possibilità di ascoltare live i pezzi che hanno fatto la storia del gruppo. Le canzoni pescate dal primo e dal secondo dei loro lavori non superano il paio, tutto il resto del tempo (tanto, ve lo assicuro) è riservato alle canzoni dei dischi più scadenti ed all’esecuzione di praticamente tutto il nuovo Lp; probabilmente causa di questo è il numero in continua crescita di membri in entrata ed in uscita, preparati solo sul materiale più recente. Sotto il profilo tecnico la prestazione è ottima e, nonostante i Sinister non siano tra le band più tecniche in circolazione, dimostrano di sapere suonare decisamente bene; il chitarrista, privo di un collega, si dà da fare parecchio destreggiandosi in un riffing tutt’altro che semplice, seguito da un degno bassista e da un solerte batterista. Buono anche il cantato che però si fa piccolo se confrontato con quello di altre “stelle” della serata molto meno “stelle” di questo vocalist. In totale, posso parlare senza timore di prestazione mediocre, che prende il voto che prende solo in virtù di un esecuzione corretta e di un glorioso passato: band di questo calibro hanno comunque il dovere di dare di più specialmente di fronte a fan che li seguono da anni.
Voto: 7
NAPALM DEATH
Finalmente il momento che tutti aspettavano, oramai è mezzanotte passata e gli Headliner della serata sono arrivati da meno di un’ora; mentre ancora suonavano i Sinister, mia sorella parla con il chitarrista senza neanche accorgersi di chi è e me lo viene a dire solo quando lo riconosce tra “quelli lì sul palco” (e qui ci fu LA bestemmia). Prima importante considerazione: il vocalist Mark “Barney” Greenway è ancora ingrassato, forse nel disperato tentativo di rotolare veloce quanto il celebre bassista Shane Embury, che ha oramai raggiunto le dimensioni di un lottatore di sumo (coi capelli alla Branduardi, però). Scherzi a parte, vedendoli per strada nessuno direbbe che sono le leggende del Death Metal e del Grindcore ma li considererebbe dei qualsiasi golosoni nostalgici della NWOBHM… Basta sentirli aprire il concerto con “Unchallanged Hate” per cambiare repentinamente idea: i Napalm Death sono invecchiati ma sono più carichi che mai e di energia ne hanno ancora da vendere. L’unico che alla lunga da segni di stanchezza è proprio il singer che, tuttavia, tiene alti gli standard del suo cantato e offre una prova più che dignitosa: per il resto sembra di vedere i Napalm Death di quindici anni fa, ancora freschi e all’acme della loro carriera. E’ un peccato vedere come la traccia di apertura sia solo un contentino dato al pubblico (che nel frattempo è cresciuto a dismisura) e che poi la scelta si sposti (ma che caso) sulle canzoni degli ultimi lavori; tuttavia cali di tensione non ce ne sono e la loro discografia viene ripercorsa un po’ tutta anche se, come già detto, con una preferenza per le ultime song. La perizia degli inglesi è buona e le canzoni, come c’era da aspettarsi da professionisti come loro con alle spalle una tale carriera, sono eseguite in maniera ineccepibile. Mi dispiace un po’ di non avere potuto vedere in azione Jesse Pintado, ora sostituito da un nuovo chitarrista che si dimostra comunque all’ altezza del suo illustre predecessore. La conclusione del concerto era quasi scontata, una performance che non sovrasta le altre della serata ma che, per ovvie ragioni, ottiene un successo strepitoso: i Napalm Death fanno vedere a tutti quale deve essere lo spirito con cui si fa musica e in particolare questo tipo di musica. Una carriera ventennale che sembra non doversi concludere mai, una grinta fuori dal comune che deve però confrontarsi con le più che giuste ambizioni delle nuove leve e che, pur a tratti vacillando, tiene duro e non cede. Lo show si conclude così, con i Napalm Death che ringraziano il pubblico e il pubblico che ringrazia i Napalm Death; ma bisogna essere obiettivi, forse cattivi, e dare al gruppo di Birmingham non un premio alla carriera ma un giudizio sulla loro lunghissima presenza sul palco. A volte il ritmo si inceppa e sopravviene la noia, forse perché è tardi e il concerto è stato duro o forse perché la scelta delle canzoni non è delle più felici. Niente di pessimo, per carità, ma i cinque traspongono in sede live i difetti che hanno in studio, cioè l’alternanza di alti e bassi, di song adrenaliniche e di altre sonnacchiose (pur senza scostarsi dai rigidi canoni del Death Grind). Insomma, i Napalm Death sono una leggenda vivente ma forse sarebbe stato meglio mettergli come “spalle” gruppi più vicini a loro come età e sound; i nostri infatti si trovano fiancheggiati da band prive di timori reverenziali e decise a dare il tutto per tutto, forse più di loro. E so che qui ci sarà qualcuno (magari Sfascia) che mi dirà “pourquoi Ella, cordiale de-Tepes, non attende di poterli nella eventualitade de-observare indi aubscultare tra approssimativa/mind perlo-meno two decadi (antziquénon) ?” e su questo io non ho niente da obiettare; ma ora come ora, sebbene non sfigurino, dimostrano una cerrta difficoltà nel tenere il passo con gli altri. Non stupitevi quindi di leggere un voto che non si addice ad un Headliner, tantomeno se è tra i Padri Fondatori del Death e del Grind; anche se mi inchino di fronte alla loro gloria, un po’ di senso critico male non fa.
Voto: 8,5
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