In pochi si ricordano di Howard Jones, tra i migliori esponenti della stagione synth pop degli anni ottanta. Questo cantautore tastierista proviene dal New Hampshire, provincia britannica affacciata sulla Manica davanti alla mitica isola di Wight, ma tiene una faccia da gallese verace, appuntita e chiara.
Essendo stato studente di pianoforte classico al Conservatorio e tiratosi fuori da quel mondo proprio a un passo dal diploma, non è per certo un semplice strimpellatore di quei potenti generatori elettronici di musica, bensì un musicista educato compiutamente ad essere tale. Passata la stagione dei suoni sintetici non ha avuto problemi a riciclarsi come pianista e multi strumentista, con una normale band al seguito, pur restando in ambiente pop e canzonettaro.
In quest’opera del 1992 i sintetizzatori ci sono sempre, peraltro arrangiati nel mix insieme agli strumenti tradizionali, di cui il pianoforte è il principale. D’altronde Howard componeva al piano già ai tempi dei suoi multi sequencer e dei suoi castelli di tastiere, quando faceva palco da solo suonandosela e cantandosela, aiutato soltanto dalla tecnologia.
La canzone che intitola e apre l’album è un pop rhythm&blues con (finti ma verosimili) fiati, alla faccia. “Fallin’ Away” che segue subito è invece una deliziosa ballata pianistica in stile Bruce Hornsby. “Show Me” tiene poi un groove a’la Peter Gabriel, anche se la voce di Howard non è affatto sofferente e roca.
“The Voices are Black” racconta di qualcuno che soffre di disturbi mentali, è malinconica ma anche eterea, dondolante sugli stacchi del pianoforte, ed è bella bella. Le fa contrasto il rock blues “Exodus” meno ispirato ma impeccabile, esattamente come “Tears to Tell”.
Vi è un retrogusto anni ’80 su “Two Souls”, la quale richiama lo stile e i groove dei suoi primi album (questo è il quinto di carriera). La successiva “Gun Turned on the World” procede smargiassa distendendo il suo rock melodico, nobilitato dalla eccellente chitarra di Steve Farris quello dei Mr. Mister, altra gente criminalmente sottostimata e fatta svanire dal panorama per lasciar posto magari a dei poveracci.
“One Last Try” è contemplativa, par quasi di inoltrarsi in un bosco autunnale giallo rosso verde e viola. Jones vi mischia insieme i pianoforti elettrico ed acustico e canta con un filo di voce; preparando la strada per la finale, ambiziosa “City Song”: oltre sette minuti dovuti ad una intro atmosferica, con la voce che arriva solo dopo quasi due minuti e poi un serafico solo di pianoforte. La melodia delle strofe è “lunga”, con quelle tipiche sue fughe verso il falsetto, mentre i ritornelli sono più tradizionali.
Howard Jones è un giusto e questo è uno dei suoi album migliori.
Elenco e tracce
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