Gli Hypnos altro non sono se non gli ennesimi proseliti di un lembo del Death, precisamente il neonato scenario est europeo; costoro provengono infatti dalla Repubblica Ceca, patria di numerose band di metal estremo.
La proposta musicale di questi figuri è abbastanza anomala anche se, ad onor del vero, riprende un po’ troppo vistosamente il sound dei compatrioti 'Rabaroth' (complesso col quale scambiano continuamente membri) e della tradizione Floridiana. Devo dire che sono rimasto molto accattivato dall’apparenza, convincendomi che il gruppo suonasse una musica in linea col loro nome, insondabile e misteriosa.
Dopo un primo ascolto che mi ha lasciato più che soddisfatto, hanno incominciato ad emergere pecche che mi hanno portato a liquidare il cd con un giudizio così mediocre. Le buone idee ci sono, ma restano in netta minoranza rispetto ai cliché e alle parti noiose, purtroppo molto abbondanti; da notare che questa è il loro terzo Full Lenght, quindi non si tratta di debuttanti. La tecnica non manca, per quanto non brilli in un genere basato sulla perizia come questo: tutti i membri dimostrano una buona conoscenza del proprio strumento, questo è indiscutibile, ma non ci sono quei passaggi esaltanti che rendono una lavoro attraente anche sotto il profilo strettamente musicale. Insomma, sebbene lungi dal suonare male, gli Hypnos svolgono comunque un lavoro che, confrontato con altri “colleghi”, risulta solo discreto: il batterista offre una prestazione ortodossa che poco da all’ascoltatore e gli altri membri gli stanno dietro senza offrire piacevoli bizzarrie.
Una struttura formata da consueti blast beat e, più in generale, da un drumming troppo lineare si intreccia con partiture a volte stupefacenti ma per la maggior parte del tempo abbastanza monotone: chi ama i virtuosismi non troverà molti spunti sotto questo punto di vista, ma c’è anche da dire che non sono individuabili solamente dei difetti. Dal punto di vista compositivo, infatti, i nostri sfoderano un buon intuito, e, nella massa dei riff buoni a nulla, se ne distinguono altri per bellezza ed eccentricità. E’ il caso dell’ opener “Drowned In Burial Mud” (se sapete l’inglese, potrete capire di primo acchito la levatura artistica del testo), dall’incipit assolutamente devastante e opprimente: purtroppo, però, la canzone si presta anche ad essere assurta a simbolo di tutto il resto (una parte per il tutto, un processo deduttivo, insomma).
E infatti, dopo un tanto efficace (antziquenon) inizio, la song scade e rasenta, per i restanti tre minuti abbondanti, livelli medio bassi: il riffing è bacucco e anche la struttura, per quanto articolata e non rattoppata, dimostra che il principio di imitazione è ancora il sentiero più battuto dai nostri in sede di studio.
Altri episodi degni di nota sono la conclusiva “At Death’s Door” e “Krieg (The Alpha Paradox)”, delle quali forse la migliore è la prima (dotata addirittura di un’intro al piano e di un assolo non uguale a quelli di qualche icona del Thrash). Il cantante dimostra una (finta) bravura che si risolve nel passaggio tra discreti screaming, un buon growling e pessime clean vocals. Decente invece l’uso (sporadico) delle tastiere che rende l’aria un pochino più tesa e meno “molle”.
Un ulteriore elemento che reca molto fastidio è la triste constatazione che ben tre delle undici tracce sono delle specie di Intro che servono di sicuro più agli 'Hypno's (sono convinto che si tratti di un espediente per allungare la tracklist) che non all’ascoltatore. Insomma, sembra che questi Cechi abbiano preso tutti i dischi dei Deicide, dei Testament e di qualche altro seminale gruppo Death per poi riprodurre più o meno esattamente le stesse cose, aggiungendo qua e là qualche riff degno di questo nome.
Certo il fatto che oggi io abbia la luna storta (molto storta) non li aiuta (nel senso che forse un voto in più potrebbero anche rosicchiarselo), ma il disco di certo non è di grande qualità: le buone idee, sono assolutamente sprecate e messe in ombra dalla quantità degli episodi deludenti. Ci sono comunque alcuni momenti, ahimè belli quanto effimeri, che danno l’idea di essere di fronte ad un grande lavoro, ricreando atmosfere molto evocative. Ma la meraviglia, alla stregua del “prodigio” di Montale, finisce presto e il seccato acquirente si ritrova tra le mani un disco che sentirà per la seconda volta chissà quando. A niente vale una produzione estremamente professionale se poi i musicisti risultano bravini solo ad attingere dalla discografia del “mostro sacro” di turno.
E’ probabile però che il mio giudizio sia eccessivamente severo in quanto mi sono accorto tardivamente dei difetti di questo lavoro, cosa che mi ha non poco amareggiato: alcuni bei riff ci sono, quindi consiglio un ascolto preventivo.
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