A onor del vero, la massima opera del rimpianto artista svedese è già stata ben recensita dall'utente Il_Paolo. La mia esposizione, sarà un tentativo di comprendere e far comprendere gli effetti che ogni sequenza di questa grande opera, in un inquietante bianco e nero, ha cercato di produrre.

La tecnica di Bergman, con molte probabilità annovera delle innovazioni. Interessanti sono le dissolvenze bianche, presenti prevalentemente nelle prime scene, al posto delle ormai solite, nere, che donano al contesto del film una sensazione di effimero stupore, forse di straniamento. Il fulcro del film è decisamente metaforico, dove la morte, egemone, contribuisce alla azzeccata sterilità della trama che meglio, a mio avviso, non poteva essere eseguita. Raccontare la morte, non deve essere semplice. Bergman, per facilitare il compito la rende umana, in maniera da potersi materializzare nei momenti opportuni. Io personalmente, la immagino, in un area piuttosto fantastica di ciò che mi è rimasto nel cervello,  come una entità munita di una mira abbastanza scadente. Nel senso che si ritrova a tagliare l'aria con quel suo bel falcione con l'intenzione di colpire qualcuno per portarselo via. In questo modo possono spiegarsi le morti ingiuste, quelle inconcepibili, quelle che accadono da un momento all'altro.

Il discorso potrebbe apparire poco divertente ma se vogliamo potrei morire anch'io tra qualche attimo, durante la stesura di questa recensione e magari vi sorprenda il fatto che in maniera estemporanea il testo lineare si trasformi in una sola lettera battuta all'infinito. Qualcuno magari me lo sta anche augurando. Nel film, la morte allo stato solido, cammina accanto un guerriero di ritorno dalle Crociate ritrovandosi in un paesaggio tristemente deserto, devastato dalla pestilenza e da poche genti che tentano di sopravvivere il più possibile. Una piccola compagnia di giullari, un pittore, una moglie adultera, un fabbro tradito, degli astanti in una locanda che assume l'ultimo posto di svago, quasi fondamentale, prima che la peste raggiunga tutti.

Si materializza, appunto, nel momento opportuno, di fronte all'impavido cavaliere che decide addirittura di sfidarla in una geniale partita a scacchi. Magari il guerriero lo sa che la morte non si può sconfiggere, che prima o poi vi dovrà soccombere, dovrà cedere, volente o nolente alle sue lusinghe. Nel film sono evidenziate anche le componenti fisse dell'epoca medioevale, dove un aspro bigottismo, esasperato fino all'inverosimile, probabilmente mieteva più vittime della sorellaccia stessa che agiva in maniera naturale. A tal punto, dove non resta altro da fare, c'è chi provvede a regalarsi gli ultimi bei attimi di vita, cedendo alla lussuria, all'alcolismo grezzo tra gli avventori di una locanda o ad un catino di latte appena munto e fragole selvatiche.

La partita continua e il guerriero si rivela un ottimo giocatore. Ed è qui che la metafora diventa capolavoro. Purtroppo la morte non si può sconfiggere e a quanto pare, sembra che non abbia perso alcuna partita se non poche rivincite, ma sempre vinte. Allora, anche la possibilità di sfidarla a scacchi, in una partita emozionante, tesa, impegnata, che richieda comunque il tempo per giocarla e automaticamente altro tempo per vivere, da trascorrere, basta per raggirarla, anche per un pò. No, purtroppo non si può sconfiggere la morte, ma prenderla un pò per il culo, si.

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