Se c'è qualcuno che ritiene Bergman, anche il più classico, un regista ostico o addirittura tedioso, difficilmente cambierà idea guardando Luci d'inverno (1963): il titolo originale, Nattvardsgästerna, in realtà si traduce in “i comunicandi”, ed è proprio con ben dieci minuti di messa che si apre il film. Tomas (Gunnar Bjornstrand), un pastore protestante dalla fede ormai in crisi, svolge con gran compostezza la sua funzione; tra i pochi astanti c'è l'atea Marta (la meravigliosa Ingrid Thulin), vecchia fiamma del pastore che tenta il riavvicinamento.

La cifra stilistica del film, ennesimo capolavoro, è naturalmente quella che ha fatto scuola, ovvero il tipico chamber drama ricco di primi piani intensi e dialoghi/monologhi tormentati, con un bianco e nero scolpito a regola d'arte da Sven Nykvist; ma Luci d'inverno svetta per l'assoluta sobrietà, l'abbandono delle sperimentazioni, delle controversie e dei simbolismi: pensiamo, per esempio, alla frammentazione dell'identità in Persona, al surrealismo morboso de L'ora del lupo, alla solitudine delle anime che percorrono i corridoi rosso sangue di Sussurri e grida, o anche solo al famigerato sogno de Il posto delle fragole. Per non parlare del monumentale testamento artistico di Fanny & Alexander. Di certo ciascuno a modo suo è geniale e irripetibile, ma la grandezza del regista si misura anche nel saper trasmettere il messaggio con meno espedienti possibili, e Luci d'inverno rappresenta infatti l'angolino più freddo e angusto dell'opera omnia, non per questo meno suggestivo.

La sceneggiatura, come sempre densa di emozioni anche nei silenzi, tratteggia e scandaglia i personaggi con una profondità magistrale: Tomas ha perso la moglie, il suo cuore è freddo e desolato come gli ambienti in cui si muove; è incapace di confortare i suoi fedeli, di ricambiare l'amore fisico, appiccicoso, quasi patetico, che Marta gli offre. Un amore che arriva persino a disgustare e respingere con brutale cinismo. Eppure solo Marta, dal carattere schietto ma anche umile e devoto, pare l'unica salvezza, perlomeno terrena, dal gelo dell'anima: indimenticabile e lancinante la scena in cui recita la sua lettera su un primo piano fisso. È una luce che segue Tomas con insistenza, per poi attenuarsi sul finale sospeso.

La religione, chiodo fisso e traccia (cicatrice) autobiografica di Bergman, è un pretesto per parlare dei rapporti umani, e il quadro che ne viene fuori non è dei più lieti. Tomas crea un vuoto attorno a sé, l'attesa di un segno dell'amore divino che prima lo ossessionava ha finito per inaridirlo. In retrospettiva, un morto suicida sulle rive di un fiume impetuoso, una famiglia distrutta, una chiesa deserta e un'amante più sola di prima sembrano costituire l'unica sinistra risposta alle domande sorte durante i brevi ottanta minuti del film. E se la messa iniziale ha forse messo un po' di soggezione per via della severità, la seconda messa con cui (non) si conclude la vicenda lascia trasparire tutta la vacuità dei gesti che seguiranno da quel momento in poi.

Nella trilogia dolorosa sul silenzio di Dio, Luci d'inverno si pone nel mezzo: tra la schizofrenia di Come in uno specchio e la chiusa indecifrabile de Il silenzio, Bergman spalanca una voragine, mettendo a nudo ancora una volta la fragilità e la complessità dell'animo umano.

4,5

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