Il Volto, La Maschera, Lo Specchio.
Il volto è sicuramente il più enigmatico tra tutti quelli del maestro svedese. In esso il regista pare sospeso tra il razionalismo, l'illuminismo e il positivismo dello scienziato Vergerus e le pratiche magiche dell'ipnotico Vogler. Finendo per dipingere fedelmente quanto realmente avveniva nella vecchia Europa alla metà del secolo XIX°. Non a caso Ingmar Bergman sceglie con cura l'ambientazione: lo fa proprio perché vuole descrivere l'atteggiamento mentale che anche le persone più colte all'epoca praticavano: da una parte propugnando le nuove discipline scientifiche, dall'altra strizzando l'occhio sia alla magia tradizionale, retaggio di anni più bui, sia alle nuove pratiche del mesmerismo. Vergerus, scientista e positivista, da una parte; Vogler, ipnotista e mesmerista, dall'altra, incarnano la posizione attendista e indecisa, in una parola baricentrica, di Ingmar Bergman. Che, poi, è anche quella comune a molti intellettuali razionalisti di quell'epoca. Il volto è un film fatto di momenti bui, sapientemente alternati a sprazzi di pura commedia. Come avviene nel finale del film, ad esempio, con l'allegro carosello dei commedianti e delle guardie che si inseguono per gli scaloni del palazzo, su un sottofondo di musica brillante. Il film ha diviso gli estimatori del cinema di Ingmar Bergman: alcuni di loro lo hanno preferito al Settimo sigillo e al Posto delle fragole. Io, nel mio piccolo, non sono fra questi. Ingmar Bergman ha saputo continuare magistralmente nel suo divertissement fatto di dualismi e contrapposizioni. Senza peraltro mai indicare dove sia la ragione, anzi sparigliando le carte; e senza nutrire l'ambizione di indicare da quale parte sia il bene e da quale il male, anzi certe volte, addirittura confondendoli. Non si può sostenere che abbia saputo, ancora una volta, spiegarci cosa voglia dire desiderarsi, amare, sposarsi, congiungersi sessualmente, attrarsi magneticamente tra sessi diversi. Ha raccontato l'amore nelle sue diverse sfaccettature: l'amore matrimoniale muto e devoto di Vogler e della sua consorte; il matrimonio bianco del console Egerman e della moglie, che dalla morte della figlia non giacciono più insieme; l'amore giovanile tra Simson e Sara; l'amore maturo tra Tubal e Sofia. E' brillantemente riuscito a contrapporre l'essere all'apparire: come avverrà qualche anno dopo in Persona, anche qui la moglie del console scambia Vogler per il marito. E' riuscito a giocare con gli specchi, coi volti e le loro espressioni, con le maschere: un gioco che peraltro gli è sempre congeniale quando adopera la... lanterna magica. Ha preso in giro, ancora una volta, l'arte della recitazione e le professioni medico-scientifiche. Si è posto una serie di interrogativi e poi, con la disinvoltura che gli è consueta, disattendere le risposte, anzi aspettare che lo spettatore se le cerchi da solo. Ha anche cercato di filmare il momento supremo della morte; di fotografare l'attimo fuggente dell'ultimo passaggio dal quale è stato ossessionato per quasi tutta la sua vita. E chi, meglio del dottor Vogler potrebbe raccogliere meglio questa eloquente, magistrale testimonianza tanatologica? Ma nemmeno lui, il Genio di Uppsala, che ha passato tutta la sua attività cercare di cogliere l'attimo, di studiarne le cause, di indagarne le paure, è mai riuscito a svelare il segreto supremo; l'umano, insondabile mistero della vita e della morte. Tanto meno ad arrivarci vicino.
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