L'Assenza di DIO.

L'idea di “Luci d'inverno” venne a Bergman dopo aver visto il film di Bresson “Diario di un curato di campagna”. Ma l'idea primigenia la ebbe diversi anni prima, quando immaginò che un uomo entrasse d'inverno, in una chiesa isolata e deserta, si sedesse nei pressi dell'altare e rivolto al Cristo dicesse: "Resterò qua fino a quando non mi parlerai”. "Luci d'inverno” dispone di quattro personaggi centrali: il prete, la maestra, il pescatore, sua moglie. Il pescatore sa che i cinesi hanno una bomba atomica e che si sia accumulata una quantità spregevole di odio tra loro e il resto del mondo. L'uomo non può liberarsi di questo pensiero assillante. Si è come pietrificato nel guscio chiuso della sua paura. Sua moglie lo convince ad andare a vedere il prete, dopo la celebrazione della messa, e a chiedergli aiuto e consiglio. Il sacerdote è anch'egli un uomo molto turbato ed infelice. Piange la moglie morta ed è incapace di provare tenerezza per la sua amica maestra, che lo adora, lo vorrebbe, e lo segue come un'ombra. Il pastore cade anch'egli in una profonda crisi, un grande isolamento dagli altri, dal mondo, da se stesso: nel più completo e perfetto "silenzio di Dio". Nella più completa “assenza di Dio”. Il pescatore si suicida. E' dovere del sacerdote dirlo alla moglie, prima di andare via per fornire il servizio di rito nella chiesa adiacente. La maestra lo accompagna e trova la chiesa vuota. Il prete vuole ugualmente celebrare il rito religioso. Quando il crepuscolo invernale cade, va verso l'altare di fronte a una “congregazione” composta da una sola persona: la sua amica e spasimante maestra. Un altro rigoroso, impietoso, chirurgico dramma da “camera” del Maestro. Costretto in una scenografia scheletrica, essenziale, che spazia (si fa per dire) tra una chiesa fredda e desolata e le poche case di un villaggio dimenticato da Dio e dagli uomini. La certezza della esistenza di Dio è (ri)messa in dubbio dal Pastore Thomas, che, dopo la perdita della moglie, ha perso completamente la fede, è attanagliato dai dubbi, non riesce più a trovare un significato alla propria esistenza. Bello e intenso tutto, ma la parte migliore del film, quella più riuscita, più densa di significato, è sicuramente il finale. Il Maestro lascia in sospeso lo spettatore nell'ambigua e difficile scelta: il pastore (ri)troverà Dio, accettando il suo silenzio come naturale, ed insieme eloquente, testimonianza della sua esistenza o continuerà a macerarsi nel suo dolore e nella sua perdita di fede, conducendo una esistenza ormai priva di ogni senso e di ogni significato? Non si sa se, effettivamente, il pastore ritroverà la fede in Dio.In realtà il vero problema non è per il Maestro stabilire se la fede persa o mai trovata possa essere riconquistata, ma tracciare il percorso umano attraverso il quale essa viene persa, e/o possa essere ritrovata. L'obiettivo di Bergman è di tracciare nel miglior modo cinematografico possibile i dubbi esistenziali delle persone, le crisi della loro coscienza, la tentazione intrattenibile di rifiutare la trascendenza, perchè non compresa o incomprensibile. Bergman non ambisce a raccontare la conquista della fede; ma solo a raccontare il difficile, impervio, incerto cammino che ogni uomo percorre cercando la fede. Insomma, il film è l'ennesima stimolazione bergmaniana alla speculazione filosofica sul significato dell'esistenza. Che, peraltro, continua a sfuggire.

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