Era il 1978: la fusion cosí come veniva intesa negli anni 70 sta drasticamente cambiando, e si prepara per un futuro salto nell'elettronica. La maggior parte di gruppi sul genere come Weather Report, Mahavishnu Orchestra, Return to Forever (forse i piú grandi), si è ormai espressa al meglio, ed ha già sfornato ormai i piú grandi capolavori di quello che era definito Jazz Rock. Il Rock ha ceduto definitivamente il posto alle tendenze Punk, i grandi mostri del Progressive dell'epoca hanno rinunciato alla voglia di esplorare e di mettersi in discussione, e si limitano a squallide riproposizioni di loro stessi o si ritirano dignitosamente. Come inquadrare allora quest'album che poco ha da spartire con quello che sarà il futuro e con il passato del Jazz.

Ciò che viene proposto in quest'album infatti, può essere visto come la congiunzione di idee mai troppo approfondite o sviluppate nell'ambito jazzistico (a parte da eccezioni come gli Art Ensemble of Chicago o Bitches Brew di Miles Davis), come il Free, la musica Ambient e le improvvisazioni collettive simili a quelle che si potevano ascoltare nei concerti dei King Crimson del periodo Larks-Red.

La formazione è composta da musicisti stimatissimi e rinomati, tanto da poter parlare di supergruppo: John Abercrombie reduce da un album eccezionale come timeless, e dall'incredibile album The Gateway con Dejohnette e Holland, Eddie Gomez reduce da decine di collaborazioni tra cui quella con Gill Evans su tutte, Lester Bowie direttamente dagli Art Ensemble of Chicago, e Dejohnette già stimatissimo e apprezzato basta infatti ricordare la partecipazione a Bitches Brew evitando di elencare la sua già intensissima carriera.

L’album si apre con il brano piú bello dell’album “Bayou Fever”: lunghissima cavalcata verso l’infinito che subito ci chiarisce le idee riguardo le “new directions” del gruppo: siamo al limite tra un Jazz assimilabile a quello proposto dalle lunghe improvvisazioni di Bitches Brew, e le atmosfere spaziali della musica Ambient.
Quest’ultima tendenza è soprattutto riconducibile alla chitarra di John Abercrombie che ricorda la chitarra free form del Fripp di Moonchild e delle aperture melodiche delle sue collaborazioni con Brian Eno, che tesse vasti tappeti sonori che fan da sfondo alle improvvisazioni free di Bowie, mai esasperanti ma molto calibrate e perfettamente amalgamata al resto del materiale proposto dal gruppo, e al contrabbasso di Eddie Gomez il cui lavoro eccellente riesce a far coesistere l’estrosità degli altri strumenti, pur riuscendo ad essere estremamente fantasioso e anticonvenzionale. Due parole merita il solo Dejohnette, che non solo è compositore, ma è anche il genio che sta dietro ad una batteria mai suonata cosí prima d’ora: egli è il discreto protagonista che senza essere ossessivo o elemento di disturbo riesce a creare un drumming variopinto, dalle interminabili variazioni pur riuscendo a mantenere sempre un groove costante, e cosí sarà per la maggior parte del disco.
La successiva traccia “Where or Wayne”, rappresenta insieme a “One Handed Woman” l’influenza piú free del gruppo: lunghissima rincorsa tra la chitarra di Abercrombie e il contrabbasso di Gomez, che si spartiscono il brano in due lunghissimi assoli, di chitarra il primo, e di basso il secondo, per poi dedicarsi ad interminabili fraseggi, sempre supportati da una batteria che pur non essendo lo strumento solista (ma qui i ruoli convenzionali sono totalmente ribaltati) non è mai in ombra.

L’altra traccia free, “One Handed Woman”, è divisa in due parti: la prima è caratterizzata da una lunghissima fuga di un contrabbasso che, come inebriato da una libertà mai concessa prima d’ora, totalmente svincolato rispetto al resto del gruppo, esplora il brano non curante dei fraseggi schizofrenici della chitarra e della tromba di un Bowie finalmente a suo agio in territori a lui molto cari. Tutto questo sfocia, in puro stile di sberleffo degli Art Esemble of Chicago in una marcetta dalla linea di basso ossessiva in cui chitarra e tromba fungono da elemento di disturbo, fino a che, in preda a totale delirio, il gruppo non incomincia a canticchiare il nome del brano spacciando il tutto per una canzoncina anni 40.

La terza traccia “Dream Stalker”, è piú riconducibile alla prima, essendo un sognante viaggio verso atmosfere eteree, in cui tromba e chitarra si dedicano a placidi fraseggi senza inizio né fine.
L’ultima traccia “Silver Hollow” è la piú convenzionale, o comunque la piú facilmente riconducibile a standard jazz, ma è semplicemente meravigliosa. Jack Dejohnette, abbandona la batteria per suonare lo strumento con cui si è laureato al conservatorio: il piano. È disarmante pensare che un batterista di questo calibro possa suonare il piano con tale disinvoltura e maestria. Il risultato è una raffinatissima ballata, dolce quanto basta, in cui il protagonista è un Lester Bowie, che succedendo come solista ad un ennesimo grande assolo di Abercrombie, mette da parte il suo istrionismo, la sua irriverenza, la sua tromba latineggiante e anticonformista, per creare un assolo caldo e coinvolgente, accostandosi agli assoli tipici per timbro e sonorità del Miles di Kind of Blue. L’album nella sua totalità quindi ci appare come un lavoro totalmente estemporaneo rispetto alle tendenze del periodo, presentandosi come lavoro di perfetta sintesi di stili che, purtroppo, non ci si è mai degnati di prendere degnamente in considerazione nell’ambito jazzistico, ma che grandissimi musicisti, che si faranno notare e sentire molto anche in futuro, ci hanno voluto proporre con stile e originalità.

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