Risale qualcosa in questo The conjuring – L’evocazione, e risale nella maniera in cui si fa profondità, si fa profondo illimitato, abisso che continuamente decentra la superficie, facendola calare, cioè emergere: la scoperta della cantina, ovvero profondità che risale, e la presenza demoniaca, ovvero profondità superficiale che riporta tutto nel ventre oscuro in cui si pratica l’esorcismo finale. È l’esistenza, ed è l’esistenza nella maniera in cui «l’uomo è la nullità di un pulviscolo nell’universo infinito, ed egli è al tempo stesso la profondità di un essere che non può conoscere l’universo, e che può dischiuderlo in sé come conosciuto» (Jaspers). Il che significa: non, come vorrebbe Markus Gabriel, che il mondo non possa esistere perché esso non può trovarsi nel mondo, bensì che, proprio perché non può trovarsi nel mondo, il mondo esiste, quindi la Realtà è sempre già perduta o, in termini più pacatamente kantiani, dischiusa a un Trascendente nel cui silenzio dobbiamo trattenerci assieme a Wittgenstein; questo Trascendente in The conjuring è il demonio, ovvero quello che in Death sentence è stato il principio di vendetta e in Dead silence Mary Shaw e in Insidious il Golem che non passa da un mondo all’altro ma trapassa i due mondi cancellando, attraverso la spaziatura del proprio passaggio, lo spazio tra-passato. Non è la classica storia di fantasmi, insomma, quella che trapela dall’ultimo film di Wan. È, viceversa, una storia attraverso i fantasmi, di una famiglia che si fa famiglia, le cui esistenze dei membri trovano la coesistenza propria della famiglia mediante l’operosità del fantasma-demonio, e, di più, di due famiglie che si fanno famiglia (la prospettiva assiologica dell’ultima scena, con i coniugi Warren sulla veranda e la famiglia Perron sull’erba, abbarbicata in sé). Così, se Heidegger rispondeva colla particella «si» alla domanda «chi?» posta sul Dasein, ora noi sappiamo la risposta a una domanda che lo stesso Heidegger non pone: chi pone la domanda «chi» sul Dasein? Il demonio. E la potenza espressiva del demonio sta, come suggerisce il titolo del film, non sul suo prodursi ma sul suo essere prodotto, sul suo essere evocato, quindi non sul suo operare ma sul suo manifestarsi, o meglio essere manifesto, aver qualcuno (e non più qualcosa, come in Insidious) da infestare e, contemporaneamente, qualcuno da uccidere, che gli dia retta cioè, e avremo così la rete seriale per cui mamma-demonio-figlia significherà esorcista-demonio-posseduta, secondo una schematizzazione del senso la circolazione del quale, come mostra il finale, non esclude il demonio dalle serie ma lo rilega, nuovamente, nel profondo, pronto ad emergere (dal giocattolo). In questa maniera, solo il corpo esprime l’esistenza, e ovviamente definiremo posseduta non la persona che ha il diavolo in corpo ma, più precisamente, il diavolo che si manifesta nel corpo di una persona, così come definiremo schizofrenico l’individuo che il cui inconscio è libero dal Super-Io, in cui cioè Io e inconscio coincidono e si dischiudono al mondo. A questo punto, cioè prima, entra in scena Lorraine Warren, vera e propria protagonista del film perché transfert tra il marito Ed e la posseduta Carolyn, transfert attraverso il quale Ed può compiere l’esorcismo e, contemporaneamente (la mano sulla testa, dall’alto e in modo affatto soteriologico), esorcismo vero e proprio, ma non nel senso di ex-orcismus, di tirar fuori il demonio da, bensì in quello, più profondo, di ex-orkizein, che non ha nulla di cattolico (i coniugi Lorrein sono laici); infatti, l’operazione esorcistica trova la propria riuscita non nel breviario biblico bensì nell’intimità emergente, non quando Ed scongiura il demonio intimandogli, per ordine di Dio, di uscire dal corpo di Carolyn bensì quando la moglie Lorraine fa emergere la profondità di Carolyn, i suoi ricordi più cari (la gita al mare), sì che l’esorcismo non sia unatto contro Satana ma a favore della persona, un’operazione sul corpo dell’indemoniato e non sul demonio stesso, di per sé fantasmatico. Questo mostrare l’inefficacia delle teorie psicanalitiche, Wan lo fa dopo aver agito da psicologico, curandosi più della mente («I rumori che sento, gli spettri che vedo sono reali o sono nella mia mente» è la domanda che ogni personaggio inizia a porsi man mano che il film prosegue e le visioni, di suono o d’immagine, s’infittiscono) che del corpo, ma rinvenendo infine nel corpo, nella superficie epidermica (gli inspiegabili lividi), il vero e proprio mondo su cui muovere la cura, perché è la pelle quello che Merleu-Ponty chiama l’Umwelt, il mondo circostante, il mondo che attornia la nostra memoria, il nostro ricordare, le nostre affezioni e i nostri affetti, ed è solo con un’operazione su di esso che è possibile una riuscita, poiché solo l’Umwelt è operabile, mentre memoria e affezioni non sono che simulacri ineffabili, che specificano la pelle a senso unico: «il senso è direttamente in (à même)» (Nancy). Ecco la scoperta dell’Altro lacaniano: siamo noi. Ecco il senso dell’immagine pre-finale in cui i coniugi Warren guardano la famiglia Perron: è speculare. Ecco la circolazione del senso, la congiunzione delle due serie: un passaggio di testimone, il Demonio che, fuoriuscito dal corpo di Carolyn, alberga ora in casa Warren come prima, prima che albergasse non nel corpo ma nell’inconscio di Carolyn, che anzi fosse l’inconscio emergente/corporale di Carolyn (da qui schizofrenica ma non edipizzabile), albergava in casa Perron. Quindi l’ineluttabilità e la fatalità con cui lo spettatore si accorge amaramente che sarà proprio la povera Lorraine la prossima vittima di Satana. Ed ecco, infine, il senso misantropo e deleuziano del film: che tutte le buone azioni saranno necessariamente punite.

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