Le immagini parlano da sole: la sporcizia ovunque, un'orda di ragazzi fatti che sguazza nel fango, il lancio delle bottigliette, il nudismo, la speculazione estrema sui prezzi. Una serie di orrori che arrivano fino agli stupri, alla droga smerciata come caramelle, ai falò, i vandalismi, la distruzione, le ruberie.

Nella storia dei festival musicali, Woodstock 1999 può essere facilmente posizionato in uno dei gironi più bassi. The lord of the flies, dice qualcuno nel documentario. Mentre scorrono le immagini (spesso scioccanti) si annida nella mia testa l'immagine del fuoco che piove dal cielo su Sodoma e Gomorra. La miniserie non fa nulla per smorzare i giudizi estremi (spesso meritati), anzi, sembra solo voler enfatizzare tutto quanto, accontentandosi di montare immagini che già di per sé valgono il prodotto e giustapponendo dichiarazioni e interviste che spesso non fanno altro che ribadire l'ovvio o dare spiegazioni un po' generiche.

Ci sono tante diverse oscenità nell'arco dei tre giorni. Da una parte il mostro tentacolare dell'avidità, che è quello più spaventoso. Com'è possibile che non abbiano organizzato un servizio di vera pulizia tra una giornata e l'altra di un festival da 250 mila persone? Il documentario parla genericamente di un taglio delle spese, con il subappalto delle pulizie a società esterne. Ma davvero non mi spiego una sporcizia così enorme. Non hanno proprio fatto niente?

L'avidità si sublima nei prezzi degli esercenti, a cui viene lasciata la libertà di stabilire le cifre in condizioni di monopolio. Una bottiglietta d'acqua ai tempi costava 65 cent, ma durante il festival il prezzo schizza a 4 dollari (poi fino a 12). Immaginiamo dodici ore sotto il sole a quasi quaranta gradi, gente sbronza e fatta, che ha disperato bisogno d'acqua ma non può permettersi di spendere quelli che oggi sarebbero 8-10 euro ogni volta. Nell'arco di dodici ore, quanta acqua avrebbero dovuto bere per rimanere idratati? Nel documentario si parla di un litro all'ora. Forse è eccessivo, ma sicuramente questa leva sui prezzi rappresenta una delle cause scatenanti più profonde della rabbia di quella folla.

Lo sporco, l'olezzo, la poca acqua, le code interminabili per i servizi igienici. La rabbia monta presto. E se vogliamo è la cosa più normale e umana di questa psicosi collettiva. Ciò che mi risulta più alieno, disumano, impossibile, è la passività maliziosa e furbesca degli organizzatori. In questo, si evidenzia una distanza tra il mondo di oggi e quello del 1999. Uno schifo del genere nel 2022 non durerebbe più di poche ore. Ai tempi, pur essendoci una tv a pagamento apposita per il festival, nelle conferenze stampa si poteva ancora giocare con le sfumature delle parole, sminuire, circoscrivere arbitrariamente le responsabilità.

In tutto questo, vedo un condensato delle spinte più bieche del capitalismo sfrenato, che trasforma gli esseri umani in topi da laboratorio costretti a percorrere una certa strada e rispondere a determinati impulsi. Ma qui, nel 1999, forse esiste ancora un certo afflato idealista, quella massa non si aspettava di essere così oscenamente derubata. E quindi si ribella, non appena capisce di non essere veramente sotto il controllo delle forze dell'ordine, devasta e dà fuoco a ogni cosa. Perché Woodstock ormai era l'incarnazione del demonio capitalista. In un certo senso quella violenta ribellione è un ultimo vagito di dignità contro il potere, ma nel contempo annida al suo interno infinite depravazioni. Rattrista pensare che oggi per noi quei prezzi sarebbero del tutto normali, li accetteremmo supinamente. La cosa più sconfortante è constatare che, nonostante tutto, quel modello succhiasangue ha vinto, trionfato.

Una massa che è vittima, ma non solo. Siamo sulle coordinate del rave party, tanta è la voglia di sballarsi e di scopare. I palpeggiamenti non si contano, e oggi giustamente desterebbero scandalo. In questo vedo un miglioramento rispetto alla società di fine anni '90. Certo, cadono un po' le braccia quando si riconduce questa violenza arrapata all'influenza di film come American Pie e Fight Club. A mio modo di vedere tutto questo è il figlio ultimo di un decennio da fine della storia, il trionfo del benessere ma senza vederne ancora gli effetti collaterali. Il successo americano senza più nemici all'orizzonte, una generazione di ragazzi sempre più viziati e poco propensi al sacrificio, ma non ancora così molli da subire tutto passivamente. Se vogliamo, Woodstock '99 è il rito funebre che certifica la morte per “suicidio” di un modello di civiltà. Prima delle Torri Gemelle, prima del terrorismo e della crisi finanziaria. È un fallimento umano, un'autodistruzione dettata esclusivamente dall'esagerata dimensione degli appetiti, titillati da un mondo senza più paure.

Il documentario mostra meritoriamente le diverse dinamiche di questo terribile festival, senza approfondire troppo i nodi problematici e senza riuscire di fatto a raccogliere interviste clamorose. C'è una filigrana che richiama un certo sensazionalismo da disaster movie, più che un'indagine a bocce ferme sulle responsabilità oggettive, sui dati concreti della violenza, sull'identità di quella folla imbarbarita. Dice un po' tutto, ci fa una discreta infarinatura, ma non risponde alle domande più inquietanti, e utili anche per capire chi siamo invece oggi, che sorgono spontanee di fronte a questa Apocalypse Now.

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