Volevo fortissimanente vederli. Vediamo un po', mi dicevo, se questo folletto inglese, straricco e viziato, riesce a fare musica o vive solo di divismo.
Bene: sputtanato, e ne sono felice.

Messo da parte il primo periodo acid jazz, e soprattutto (purtroppo) ormai andati i fidi Tobey Smith e Stuart Zender, il nuovo Jason Kay si ripresenta con sonorità eclettiche, spruzzi disco e piccoli squarci rock à la Sly and Family Stone.
Il Palamalaguti ben presto si riempie: l'atmosfera è molto calda. La band viene introdotta da una musica molto groovie, il piccoletto arriva quatto quatto, tutina da ginnastica nera che fa molto 892-892, e il solito copricapo piumato. I primi brani mi verrebbe voglia di andare direttamente al mixer, e cantargliene quattro al tecnico: Jason si vede che ha voglia di cantare, ma il suo microfono viene spesso coperto dal resto della band.
"Canned Heat", "Little L", "Seven Days"... tutti brani famosi, "di pacca", nei quali spicca l'ottimo lavoro di Matt Johnson alle tastiere. Ma la vera scoperta è il drumming di McKenzie: quello non è un batterista. E' una macchina, un polipo che macina groove senza sosta. E piano piano Jason prende in mano la situazione: poco divismo, anzi nulla, poche mossette ammiccanti, e molta voglia di soul.
Un intro fantastica introduce "Alright", praticamente accompagnata da un intero palazzetto che salta a mani alzate.
Belle le luci, ottima musica, suonata con coesione e poca ruffianeria (come inizialmente temevo...). Il leader mi ha sorpreso per l'apparente umiltà, e la voglia di apparire come semplice vocalist, senza ruffianerie e divismi vari.
Alla fine esco soddisfatto da un ottimo concerto, che mi ha piacevolmente sorpreso.

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