Vedere e rivedere "La Grande Illusione" di Renoir fa bene al cuore, lasciarsi ogni volta sorprendere dall'antica umanità dei suoi personaggi è una gioia che pochi film sanno comunicare, e poi è uno di quei film che una volta girati smettono di appartenere al regista e ai suoi collaboratori per continuare a brillare negli anni (e sono settanta!) di luce propria. E la vicenda in essi narrata si dipana ogni volta con la naturalezza della realtà davanti agli occhi dello spettatore che ne rimane subito avvinto. Jean Renoir realizzò un pellicola di presa im-mediata (propriamente detto) nella quale la sua mano e quella dello sceneggiatore Charles Spaak sono invisibili; pellicola che conserva intatta la freschezza della prima proiezione alla Mostra di Venezia del 1937.

Durante la prima guerra mondiale il Tenente Marechal (Jean Gabin) e il suo superiore Capitano De Boeldieu (Pierre Fresnay), ufficiali francesi, sono catturati durante una ricognizione aerea dal Capitano tedesco Von Rauffenstein (Eric Von Stroheim) che ne abbatte l'aereo. Pur se prigionieri, vengono trattati con dignità e addirittura invitati a colazione da Von Rauffenstein che subito diventa intimo di De Boeldieu in virtù della loro comune estrazione sociale aristocratica. Entrambi sono ufficiali di carriera e hanno frequentato prima che scoppiasse la guerra gli stessi ambienti e scoprono di avere comuni amici; il Tenente Marechal è invece nella vita un meccanico e, mentre l'algido e distante De Boeldieu sconta paziente la sua prigionia, sul suo volto si può leggere l'ansia di tornare a combattere. Trasferiti in un campo di internamento entrano in contatto con altri prigionieri francesi che stanno organizzando un tentativo di fuga attraverso un tunnel sotteraneo che sbuchi al di là del reticolato ma pochi giorni prima il completamento dell'opera vengono trasferiti in un più sicuro castello, arroccato sui monti, e adibito a campo di prigionia per ufficiali. Qui Marechal e De Boeldieu ritrovano Rosenthal, un ricco ebreo francese che avevano conosciuto nel primo periodo di prigionia e Von Rauffenstein che, vittima di un incidente aereo, ha riportato gravi ferite e danni alla spina dorsale e ora è diventato direttore di quel carcere. A Von Rauffenstein ripugna questo meschino incarico di poliziotto e rimpiange la prima linea, e trova un prezioso confidente nel pari grado De Boeldieu, il quale però è una sfinge: non è possibile capire se sia lusingato dall'occhio di riguardo che Von Rauffenstein ha per lui durante la prigionia, né se condivida le sue convinzioni circa la superiorità dell'aristocrazia sulla emergente borghesia, né tantomeno se ricambi la sua amicizia sinceramente o solo per opportunismo. Fatto sta che è lui, De Boeldieu, ha ideare un piano di fuga a cui lui non intende partecipare e del quale beneficeranno Marechal e Rosenthal: mentre De Boeldieu distrarrà con un finto tentativo di fuga l'intera guarnigione posta a difesa del castello, i due ufficiali potranno calarsi indisturbati giù dalle mura e fuggire oltre il vicino confine svizzero. De Boeldieu morirà per mano dello stesso Von Rauffenstein per concedere ai suoi compatrioti il più ampio margine di tempo possibile. Marechal e Rosenthal, fuggiaschi, trovano ospitalità presso la fattoria di una giovane vedova tedesca, Elsa, che amorevolmente si prende cura della caviglia di Rosenthal, fattosi male mentre si calava giù dalle mura. La contadina (Dita Parlo) ha una figlia che Marechal prende subito in simpatia e più passano i giorni più il rapporto fra Marechal, Elsa e la bambina si fa stretto, familiare; anche lo "zio" Rosenthal sembra contento di questa estemporanea famiglia nata quasi per miracolo mentre fuori impazza la guerra. Guarito Rosenthal, Marechal, sebbene sia tentato di rimanere, sente il dovere di tornare a combattere e affida ad Elsa e alla sua bambina una promessa, esile, ma che basta a scaldare il cuore a tutti e tre. Marechal e Rosenthal sconfinano in Svizzera e nell'ultima scena li si vede come due puntini neri in un mare di neve mentre una pattuglia tedesca che sorveglia il confine tenta di sparargli, ma poi (" tanto ormai sono in Svizzera" dice un soldato) li risparmia.La Grande Illusione sono tante grandi e piccole illusioni. L'illusione che la guerra si risolva con un rapido succedersi di battaglie lampo. L'illusione che un mondo, un insieme di valori, quelli della nobiltà dell'ottocento sopravviva ancora. L'illusione che la rivoluzione francese sia stata tanto benefica quanto si crede. L'illusione che si sia immortali, invulnerabili, eternamente giovani. L'illusione di essere artefici della storia, che la si possa indirizzare con i nostri eroici comportamenti. E tante altre piccole illusioni, più intime ma non meno importanti. E noi che stiamo a guardare dovremmo chiederci cosa ne è stato di tutte queste illusioni, se sono rimaste tali, se sono state superate da un progresso che pare procedere inarrestato verso il nulla, o se sono state semplicemente messe da parte; dovremmo chiederci , parafrasando Montale, "che senso ha questa nuova palta e il respirare altre ed eguali zaffate? e il vorticare sopra zattere di sterco?".

Pierre Fresnay e Eric Von Stroheim recitano in questo film a livelli irripetibilmente alti. Jean Gabin ha quel qualcosa in più, che può essere il suo fascino di uomo concreto, positivo, popolare e insieme nobile, che lo porta qualche centimetro sopra i suoi comprimari. Io ho sempre ritenuto Nino Manfredi il suo erede, non solo italiano, perchè entrambi hanno un modo di recitare lontano dall'istrionismo di un Olivier o di un Gassman, ma più naturale, che si regge più sulle innumerevoli sfumature di una maschera che ispira fiducia, lealtà, onestà. Ed è proprio Manfredi il protagonista di un capolavoro dimenticato di Brusati, "Pane e cioccolata" del '73, dove viene citata una scena de" La Grande Illussione", quella in cui un giovane soldato si veste da donna in occasione di una festicciola organizzata fra i prigioniere e suscita un silenzio carico di sensualità , repressa e imbarazzante.

Può essere il film della vita di ognuno di noi.

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