In principio è il signor Margo Price.

Jeremy suona chitarra e basso ed è una sorta di tuttofare nella banda di Margo Price oltre che il di lei consorte, ultima e tra le più brillanti stelle apparse nel firmamento della scena country statunitense. Figurati, sta lì a strimpellare quegli strumenti solo perché è il marito di Margo, sai quanti musicisti di maggior talento avrebbero potuto ambire a quel posto con maggiori meriti, spifferano le malelingue.

Va avanti così per circa tre anni, finché Jeremy si mette in proprio e tira fuori un disco a suo nome. Figurati, gliel'hanno fatto incidere solo perché è il marito di Margo, lo produce Margo, è di Margo perfino il singolo che lancia l'album, le solite malelingue.

In quell'album, però, di Margo, di country e di Nashville non è che ci siano tracce così evidenti e, comunque, se viene di pensare a Nashville è la Nashville di Hank Williams e Johnny Cash, mica quella che ha fatto del country un business milionario ad uso e consumo del turista che si fa il selfie a fianco di Elvis come a Roma se lo fa fianco del gladiatore.

Sia come sia, un esordio che non fa gridare al miracolo, ci mancherebbe altro, Americana molto più tradizionale che alternativa, ma tanto basta perché chi ci capisce si appunti quel nome stampigliato in copertina, Jeremy Ivey, e se ne ricordi alla prossima occasione.

L'occasione arriva appena un anno dopo e si chiama «Waiting Out the Storm» e, anche se in apparenza non cambia chissà che – Jeremy è sempre là colla sua banda, Margo produce, arrangia e fa capolino qua e là, sempre di Americana si tratta – invece nella sostanza lo scarto rispetto all'esordio è abbastanza netto, per via di un approccio decisamente roccheggiante che rimanda tanto a Bob Dylan alle prese con l'elettricità in «Bringin It All Back Home» quanto a Tom Petty dei primi tre album e, soprattutto, a quello che accompagna Johnny Cash ai tempi delle registrazioni per l'American.

E così, da una «Paradise Alley» che confonde vicoli e viuzze fino a sembrare una minima «Desolation Row» percorsa da una banda rock'n'roll, una «Hands Down in Your Pocket» che pure sul piano immaginifico è Dylan che smazza i cartelli sulle note di «Subterranean Homesick Blues» e una «Things Could Get Much Worse» che rifà il verso ironico e divertito ancora e sempre a Dylan alle prese col suo 115esimo sogno; fino a una «White Shadows» imbevuta con tanto di quel Petty che nemmeno viene in mente quale, una «Loser Town» che invece punta dritta verso «Refugee»; ecco, dopo aver percorso i solchi da un estremo all'altro qualcuno potrebbe chiedersi se sia tutto qui oppure ci sia anche qualcosa di nuovo.

Lo chiedesse a me risponderei che di nuovo c'è meno di niente e però fin quando si scrivono ballatone come «Tomorrow People», «Movies» e «Someone Else'e Problem» e la tradizione Americana viene maneggiata con personalità e bravura come fa Ivey, per me va a meraviglia.

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