Gli 'Insospettabili' (Sleuth) di J.L. Mankiewicz (GB-USA 1972): teatro, istrionismo matematico, espressionismo scenografico raffinatissimo, intelligenza scintillante di un rigoroso pessimismo.

Tanti sono gli aspetti da ammirare di questo film. Un ricco e raffinato scrittore di gialli (L. Olivier) invita nella sua villa-labirinto l'amante della moglie, un parrucchiere alla moda (M. Caine), parvenu figlio di un immigrato italiano, per proporgli una finta rapina che permetterà al tradito di intascare un lauto premio assicurativo con cui sparire nel nulla con la sua amante, e, al traditore, la possibilità di tenersi una moglie altrui non stimata. In realtà ha in mente un piano diabolico per umiliare l'odiato rivale arricchito con le sue arti di scrittore poliziesco, ma si vedrà rendere pan per focaccia, in un gioco di indizi e tranelli sempre più vertiginoso.

Sarebbe riduttivo parlare soltanto di lotta di classe, tema certo noto al regista (si pensi a Uomini e cobra) e che qui è affabulato con dialoghi volutamente roboanti fino alla caricatura. L'occhio clinico (e cinico) e la mente labirintica dietro la macchina da presa si assottigliano fino all'astrazione di un divertimento nero di grandissima classe, dove la psicologia dei personaggi appare rimossa, mentre le azioni e le parole sembrano seguire le formule di un'algebra lussureggiante: mossa, contromossa, previsione della mossa in una ridda di inganni, impossibile da descrivere punto per punto. Sembra di trovarsi davanti a una specie di recitazione pura, perché il regista mette in scena la commedia di due intelligenze che si scontrano per il piacere di superarsi e distruggersi, perché i due attori straordinari impersonano due figure prive di anima, ma fatte solo di intelligenza e brama che finiscono quasi per coincidere in una cupa ed empiamente autotelica affermazione di sé (forse non è un caso che spesso sia inquadrato un ritratto di donna bellissima che non si sa mai se sia la moglie di Olivier o la sua amante: l'oggetto è un pretesto interscambiabile per superarsi nella lotta per l'autoaffermazione che non vede altri che se stessi, fino alla propria rovina). All'impietosa lucidità con cui i due si conducono verso il nulla fa da cornice la villa piena di cimeli (ottima scenografia di Ken Adam) lo sfondo statico e sovrabbondante che si contrappone al ritmo forsennato dell'azione: pupazzi, marchingegni, carte, costumi, maschere dalle quali occhieggiano spesso inquadrature sapienti. Correlativo oggettivo opposto, ma uguale, della stessa finzione recitata dai personaggi: pupazzi barocchi e vacui quelli, pupazzi Olivier e Caine, manichini della loro sbalorditiva e vana intelligenza e volontà impegnate nella propria distruzione.

Volutamente sopra le righe, non saprei se possa essere una tragicommedia, un thriller, una parabola, un divertimento del genere dei grandi noir, certo un genere difficile in cui solo un regista con le carte in regola, può evitare di sbagliare e cadere nel banale. Per me è un film di grande fascino che può far riflettere, stupire e sbalordire. Sul fronte degli attori, la grandezza di Olivier era già nota. Il giovanissimo Caine, credo ad uno dei suoi primi film, fornisce una prova di sicuro talento.

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