Capita di comprare dei dischi e tenerli sullo scaffale. Capita di darli per scontati. E capita, ovviamente, di sbagliare.
Poi capita di caricare il proprio marchingegno moderno che legge gli mp3 (anch'io so esser giovine e trendy, quando mi ci metto), e di dirsi: "vabbé, mettiamoci dentro un po' di roba che ho sentito poco e niente". Raro esercizio di modestia, attenzione e buona disposizione all'ascolto.
E allora ecco che dentro questo cosino leggerissimo, inimmaginabile negli eighties, entrano un bel po' di cosette jazz, l'ultimo meraviglioso Cohen, un po' di Blues elettrico poco conosciuto (almeno da noi, tipo Cummings, Bonamassa, ecc...) ed il mio amatissimo JJ: il suo live meno ascoltato.
Il live dato per scontato: "Afterlife".
E chissà perché, poi. Si trattava del tour di "Vol. IV", ovvero il quarto disco della carriera quartettistica di J.J., i cosiddetti dischi "chitarristici". Sì, perché Joe Jackson, come altri autori (ma a differenza di altri autori, non essendo lui un chitarrista) ha alternato momenti chitarristici a momenti di puro "guitarless", sfornando dischi ove il piano al massimo faceva qualche riff o qualche ricamino qua e là, lasciando il grosso dell'armonia alla chitarra. E non ad una chitarra qualunque, fatta di accordoni tagliati con l'accetta...: una chitarra studiata, originale, pensata e calibrata al massimo, da far impazzire di gioia qualunque amante delle sei corde.
Erano anni che J.J. non tornava su questo terreno: in mezzo tanti dischi concepiti al piano e per il piano, sia che si trattasse di canzoni, oppure di opere di stampo più classico o sperimentale.
E non si pensava certo ad un ritorno al quartetto iniziale. Invece, eccolo qua.
Il disco in studio era decisamente bello, energico, già esso stesso molto "live", anche se ovviamente perfettino come sono e devono essere tutti i prodotti senza pubblico, con un'ovvia e obbligatoria post-produzione. Lui in formissima, gli altri tre in spolvero eccezionale, ma soprattutto questa manciata di canzoni nuove che sembravano sfidare il tempo (e anche un po' la logica). Insomma, un disco da ventenni quando ventenni non li si è più da un tocco. Ed infatti non un disco da ventenni di oggi, ma da ventenni d'allora. O, mi piace poter pensare e sperare, da ventenni di sempre.
Ed era logico seguisse un tour all'altezza. Dunque sempre più insensato è stato l'atteggiamento del comprare un ciddì in originale (per certi autori faccio sempre e solo così...) e lasciarlo bello rilassato e dormiente su uno scaffale.
Niente di più sbagliato: energia pura, forma vocale e strumentale se è possibile ancora superiore a quella del disco in studio, perfezione assoluta in ogni microsecondo (sarebbe bello poter dire ancora in ogni microsolco) dell'album.
La sezione ritmica regala più d'un momento di puro orgasmo musicale, la scelta della scaletta (tra il classico e il nuovo) e pressoché perfetta, ed il retrogusto che lascia quest'ascolto di pura libidine senza tempo è persistente e godibilissimo, come quello d'un buon barbaresco.
Dunque devo ringraziare un pomeriggio di sole e campagna, e molte sterpaglie da bruciare, un marchingegno moderno con le sue cuffiette e un'oretta a disposizione per l'aver riscoperto, o meglio scoperto, un concerto eccezionale, sicuramente tra i migliori che abitano la mia classifica personale di quella prova dell'esistenza e della musicalità di dio che spesso sono i dischi "live".
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