Succede che siete lì che covate l'accidia, l'accarezzate e ve la godete mentre arrotolate le ore perse e ve le fumate con una Dr. Pepper in mano e un biscotto alla vaniglia nell'altra. Vorreste continuare così e invece no. Un amico vi affida un nuovo cliente potenziale. Non accettate l'incarico ma poi questo muore; un po' per senso di colpa e un po' per curiosità finite in mezzo al solito casino.
Benvenuti di nuovo nel mondo di Hap & Leonard: due amici, due caratteri opposti, una sola certezza – se può andare storto, probabilmente lo farà in modo spettacolare.
Rispetto ai primi capitoli della saga, "Zucchero sulle ossa" si presenta meno scatenato di "Mucho Mojo" e meno esplosivo di "Rumble Tumble", ma più cupo. Più introspettivo. Più... autunnale, se vogliamo usare un aggettivo da gente che legge con la copertina sulle gambe e il tè alla cannella. Eppure il solito Lansdale c’è tutto: la lingua è affilata, il dialogo scoppietta, e il Texas... beh, il Texas resta quella striscia di terra in cui la civiltà arriva con duecento anni di ritardo e poi chiede scusa.
Hap è sempre lui: bianco, idealista, con l’anima da poeta blues e la schiena di uno che ha fatto troppi lavori sottopagati. Leonard è il suo alter ego perfetto: nero, ex marine, gay, e dotato di un'abilità invidiabile nell'individuare il bersaglio esatto da prendere in giro o a pugni. In "Zucchero sulle ossa" i due sembrano più stanchi, ma anche più legati che mai. Non hanno bisogno di dirsi nulla: basta uno sguardo per partire. O per fermarsi prima che sia troppo tardi.
La trama – chiariamolo subito – non è il punto forte. Il mistero si apre bene ma si chiude con meno impatto rispetto ad altri volumi. Se in Il mambo degli orsi l’indagine era una danza jazz impazzita, qui è più un lento con qualche inciampo. Eppure non te ne importa granché, perché Lansdale non è uno che scrive per farti gridare al colpo di scena. Lui vuole raccontarti le sfumature del suo Texas: sporco, brutale, tenero a modo suo.
Il bello di "Zucchero sulle ossa" è che ti ci trovi dentro anche quando pensi di saperla lunga. Leggi e senti la polvere addosso, l’umidità sulle tempie, l’odore di biscotti alla vaniglia troppo cotti che ti riporta a una nonna che non hai mai avuto. E nei personaggi secondari – vecchie signore sospette, poliziotti dalla morale flessibile, parenti sepolti sotto il peso dei segreti – ci ritrovi quel talento che Lansdale ha per far vivere anche chi passa solo una pagina.
Insomma: non il capitolo più scoppiettante della saga, ma uno dei più maturi. Un romanzo che, più che cercare di stupire, ti prende per il braccio e ti dice: “Vieni, ti faccio vedere dove finisce davvero la strada.”
E alla fine, anche se non hai scoperto l’America, hai visto qualcosa che valeva la pena guardare.
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