Riccardo Chailly l'ha definita "la più grande tragedia dell'umanità". A volte me lo chiedo, e non so se sia così. Mi chiedo quanto del dolore della Passione di Cristo sia stato rivissuto nei treni per Auschwitz, "sempre in orario" con l'orrore dell'uomo verso l'uomo. O quanto di questo dolore semplicemente riviva nella vita di tutti giorni, in un "no" gratuito, detto magari sovrappensiero, in una negazione della felicità gravata di una cattiveria infantile ed innocente. Perché la "Passione Secondo Matteo" non è solo uno dei più grandi monumenti musicali di ogni tempo. È soprattutto un lavoro sospeso fra i due punti cardinali della vita di ogni uomo: l'amore e la morte.
"Aus Liebe will mein Heiland sterben", canta il soprano. Con la trema esile del flauto e dei due oboi che la sorreggono intessendo una atmosfera straniata dal fascino aracneo, è questa la vera chiave di volta del monumentale edificio bachiano. "Il mio Signore morirà per amore". Un amore che non è "Eros", ma che ha un valore ed un significato davvero superiore e più profondo. Un amore che è "Agape". È l'amore che assume i connotati divini e sovrannaturali del sacrificio e del perdono. È l'amore che lotta contro l'odio della folla minuta, che urla in un fugato la condanna "Kreutzige!". Od il cuore gravato di un dolore ineffabilmente inesprimibile nell'oscura aria per contralto "Buss und Reu". Ed anche la potenza musicale di questa Passione è enorme. Due cori, due orchestre contrapposte, un coro di voci bianche. In un turbinio di emozioni che spazia attraverso tutti i sentimenti dell'uomo. Dalla fiducia e dal tenero abbandono di "Ich will dir mein Herze schenken", all'atmosfera austera ed allucinata della fantasia corale "O Mensch, bewein' dein Suende gross". Dal fervore mistico del basso che intona "Gebt mir meinen Jesum wieder" - meravigliosamente trasfigurato nella linea melodica del violino - al tenore che proclama "Ich will bei meinem Jesu wachen", pur sapendo di non poter vegliare nell'agonia del Getsemani. Perché nel dolore, come nella morte, siamo sempre soli. Una vicenda narrativa di straordinaria intensità sospesa tra arie, corali e recitativi, dove solo apparentemente vince la morte. Perché "Mein Jesu, gute Nacht", proclama il coro dopo la morte di Cristo. Ed è semplicemente sonno quello in cui si può assopire l'amore superiore, quello agapico, quello altruistico. Non è mai morte.
E Karl Richter, in questa splendida esecuzione datata 1958, sembra voler far suo questo messaggio in una esecuzione di cristallina bellezza, corposa e granitica. Con la splendida voce di Dietrich Fischer-Dieskau che, come in una berceuse, intona "Mache dich, mein Herze, rein". In un'aria barocca che si perde come in una brezza in un lied romantico. In una modernità, umana e musicale, davvero insondabile. Come il mistero di un amore che vince perpetuamente la nostra mortalità e la nostra miseria.
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