C’è un gioiello scuro, che emana riflessi d’una luce spettrale, incastonato nella discografia di John Cale.
C’è un uomo, solo, in una stanza.


Una di quelle ampie stanze dai soffitti altissimi, vuote, dove gli oggetti che un tempo ne definivano lo spazio, hanno lasciato fantasmi in luogo delle proprie presenze. Sagome come ombre, di mobili e quadri, sui muri.
Una di quelle stanze dove i suoni, le voci, i nostri stessi passi, acquistano un riverbero naturale.
Che li isola e li concentra. Al punto che pare di udirli per la prima volta.

E c’è una finestra aperta, dalla quale, con un soffio improvviso, s’insinua una folata di vento. Facendo danzare una tenda, gonfiandola e risucchiandola, come in un respiro.

L’uomo è, probabilmente, nudo.

O è come se lo fosse.
Ciò che infatti sentiremo ora, la cruda razione di sé che ci sta per servire, non l’abbiamo mai sentita. E non la sentiremo più. Mai più così.

L’uomo è lo stesso che, molto tempo prima, in un’ altra vita, vide il proprio nome legarsi indissolubilmente alla sagoma gialla di una banana. Lui, la figura allampanata armata di viola, accanto all’uomo con la chitarra e la voce.
E’ lo stesso uomo che, ritratto in un abito candido, novello Gatsby sulla copertina di “Paris 1919”, ci presentava i suoi gioielli delicati, di raffinata ed eclettica fattura.
Lo stesso che poi, solo un anno dopo, in “Fear”, avrebbe innalzato il suo inno, in forma di delirio paranoico, alla paura. La migliore amica dell’uomo.

Ma oggi è qui, in un punto imprecisato nel mezzo della propria esistenza, in questo spazio vuoto, in questa dimensione nuova.

Con il coraggio sufficiente per vincere l’imbarazzo e scegliere un titolo come “Music For A New Society”.
E ci sono pochi suoni.
Quelli di un pianoforte, o di un organo.

Cale suona tastiere (un suono spesso liquido, come disciolto) basso, chitarra, viola.
In un brano udiremo anche delle cornamuse.

Ma è un uso contratto, misurato, attento a mantenere in ogni episodio la spazio bianco di silenzio che si crea tra le note. Anche per farne poi uso, come di una tela immacolata, quando in esso deflagrerà la voce, spinta sino alle sue sembianze più espressioniste, in una sorta di catarsi.

E ci sono frammenti di suoni
che sembrano scaturire da qualche profondità spigolosa, dal fondo d’un incubo, e che attraversano il vuoto tra gli accordi.

C’è un senso di claustrofobia e tensione, come in presenza di una minaccia incombente.
Ma anche la sensazione di un rifugio austero, di una liberazione prossima.

C’è una liricità che sfiora la poesia, e una crudezza che la supera. Che sembra rendersi conto che non sarà possibile ritrovare la stessa atmosfera.

Questa, forse, è l’ultima occasione per l’uomo solo in una stanza.

C’è l’“Inno alla Gioia” dentro “Damn Life”, e qualcosa di segreto e magnifico, nella stranianti melodie di “Broken Bird” e “The Chinese Envoy”.
C’è il retaggio della sua formazione classica, tra le pieghe di queste canzoni.
C’è spazio anche per una “Changes Made” che recupera la sua indole rock, ma è un episodio isolato nel clima dell’album.
C’è l’ipotesi di una moderna, aliena, musica da camera. Per camere sventrate da esistenze attraversate dal dolore e dall’impossibilità. Senza il velo di un pudore a celarne le pieghe.

Depositate, tra le musiche scarnificate, da parole a volte quasi declamate, in altri momenti cantate in una struggente semplicità da questa voce definitiva.
Parole che, in un paio di occasioni (If You Were Still Around” e “Risé, Sam and Rimsky Korsakov”) sono quelle di Sam Shepard.
E una voce che, su di me, ha sempre esercitato una strana attrazione. Che qui, ancor più che altrove, sembra avere un corpo profondo e nervoso, in certi momenti quasi a diretto contatto con il mio.
Nelle dieci tracce (undici nella stampa cd) di questo disco c’è un mistero che, nonostante il tempo, non ho ancora sciolto.

Un magnetismo algido ma bruciante, capace di catturare, capace di lacerare e svuotare.

Qualcosa che si ripresenta, ogni volta, come fosse la prima.
Non è possibile ascoltarlo davvero senza accettare la sua prepotente urgenza. Senza entrare nella medesima stanza, dentro lo stesso vuoto.
Per questo, probabilmente, lascio che sia lui a dirmi quando è il momento.

Stasera l’ha fatto.

Resta uno dei dischi più veri, imperfetti, irripetibili ed importanti dei famigerati anno ’80.
Per me, per i miei anni ’80.


C’è un gioiello scuro, che continua, a distanza di quasi venticinque anni, ad emanare riflessi di una luce unica e spettrale, incastonato nella discografia di John Cale.

FUORI CATALOGO DA MOLTO TEMPO.

E, naturalmente, a prezzi assurdi, in rete.

Che si fottano.

Anche in questo caso non hanno scuse.
Affidatevi al Mulo.

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