Certi dischi sono così, ti vengono addosso e ti travolgono. Ti lasciano sulla pelle un marchio indelebile, una sensazione che ogni tanto ti riporta lì, tra quei solchi maledetti in cui un pezzo della tua anima si è rifugiato e non ha nessuna voglia di andarsene. Puoi minacciarla, strattonarla ed insultarla ma lei rimarrà ferma sulla sua decisione. Allora non rimangono che quelle note, fiumi in piena di calore e sudore che corrono sopra i tasti lucidi di un sassofono che incanta il pubblico come un domatore di serpenti inebetisce gli astanti che lo guardano. Un gioco di sguardi, di reciproca intesa e poi nulla più rimane, se non quel sentore di magico che ti percorre la schiena in un brivido di piacere incontrollato. Perché la musica è donna, ammalia con gli sguardi ed è più sensuale quando devi scoprirla piano piano, senza fretta, togliendole un capo di biancheria la volta. Col passare degli anni però tutto ha acquistato troppa velocità, si vuole arrivare subito al sodo, al piacere effimero del momento che non permette di godere della bellezza della scoperta, del ricercare il suono, il mood giusto della musica stessa. Oggi manca il gusto per la seduzione e lavori come “The Complete 1961 Village Vanguard Recordings” di John Coltrane rischiano di diventare come una donna talmente bella da intimorire, perché con lei con bastano tre battute sceme per conquistarla. No, un lavoro come questo non lo puoi liquidare con un paio d'ascolti, non è giusto.

Qui il treno corre, ma la mente va più veloce delle dita e la musica si snoda su binari intricati fatti di fiati taglienti e ritmiche che si rincorrono l'una sull'altra, si sovrappongono e si impastano in un mare convulso di armonie, in cui noi non possiamo far altro che lasciarci trasportare dalle onde e vedere dove ci porteranno alla fine. Coltrane è free, ma non nel senso letterale del termine, non siamo ancora nei territori di “Ascension” però è ugualmente libero: nel tempio del Jazz lui parla e dice ciò che vuole, nei suoi tempi e nei suoi modi. Siamo davanti ad un lavoro dal sentore spirituale, che ti investe con la sua potenza ma allo stesso tempo ti accarezza e consola con la sua eleganza. Un lavoro progressivo per quei tempi di grande apertura mentale che oggi, a causa dell'imbarbarimento culturale che stiamo vivendo, risulta perfino troppo avanti. Si respira elettricità laddove non vi è corrente elettrica, carica sonora in un frangente dove l'idea di “Wall Of Sound” non era ancora stata sviluppata. Ad essere forti erano la carica del leader e le suggestioni che gli strumenti riuscivano a creare. Se Coltrane vuole portarti in “India” ti ci porta, che lo tu lo voglia oppure no! C'è tutta la carica emotiva e l'esperienza di un musicista che è stato al centro della grande rivoluzione jazzistica mondiale, capace di dividere, ed anche scippare, la scena ad un altro colosso che risponde al nome di Miles Davis. E allora è così difficile chiudere un attimo gli occhi e immaginarlo davanti a noi: grande, con quel sax stretto tra le dita, gli occhi chiusi mentre pompa note su note che ad ogni fraseggio contribuiscono a costruirgli un trono nella storia musicale contemporanea? Forse oggi come oggi lo è. Siamo rinchiusi in gabbie fatte di faccine, frasi in un centinaio di caratteri e notizie fugaci che durano il tempo di scorrere una scrollbar. Non abbiamo tempo perché ci viene sottratto dal rumore che ora dopo ora riempie ogni istante delle nostre giornate. L'esperienza intima di un live album che pretende la nostra attenzione, che sembra guardarci e dirci: “Hey, con me ci vuole pazienza. Ho tanto da raccontarti perciò stammi a sentire!”, è diventato troppo difficile. Dobbiamo correre, essere sempre connessi con l'esterno anche a scapito di perdere ciò che abbiamo dentro. La proposta di John Coltrane ha sempre avuto un'impronta spirituale, un dialogo con Dio che è sfociato in quella bellissima preghiera che è “A Love Supreme”, un'omelia che non ha nulla di dogmatico ma che si basa sulla solidità delle percezioni, dell'aria satura di sudore, fumo di sigarette e applausi. Il Live al Vanguard è solo un altro tassello dell'opera spirituale di un uomo che vedeva nell'arte qualcosa in più rispetto alla fama e ai soldi, il quale sapeva che la vera bellezza non sta solo nell'ascolto ma nella scoperta che da esso deriva. Un disco come questo è un viaggio intellettuale che non ha un'unica tappa finale, per ognuno è diverso, più facile, più difficile, più tenero o più frastornante ma la sua bellezza sta proprio in questo. Affrontare con qualcuno una discussione che riguarda questa sublime testimonianza dal vivo porta inequivocabilmente a confrontarsi con esperienze ed idee diverse, perché ognuno ha il proprio “The Complete 1961 Village Vanguard Recordings” e ognuno ha il proprio Jazz.

Grazie a tutti per esservi sorbiti questo sproloquio logorroico e forse neanche tanto sensato. Mi andava di parlare con qualcuno di John Coltrane, spero di non avervi annoiato troppo.

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