Esistono capolavori intramontabili che costellano quel grandissimo universo che è la musica, forma d'arte per antonomasia che ha avuto non a caso il merito di prendere il nome del termine che l'antichità usava per indicare l'arte e le sue forme in generale. Nel corso degli anni tale linguaggio - forma artistica che dir si voglia si è evoluto in maniera sempre più complessa e articolata assumendo le forme e  le sfumature più svariate. le culture, i luoghi e gli eventi storici  hanno contribuito ad arricchire questo bagaglio artistico e fu proprio un evento storico, la deportazione degli indigeni africani in america iniziata da spagnoli e portoghesi ad essere causa, secoli dopo, della nascita del jazz.

Nato tra lo scontro della scuola occidentale e la cultura dei popoli africani il jazz è un genere a cui dobbiamo molto per la ricchezza di innovazioni che, nel corso del suo evolversi, portò sia sul lato armonico che ritmico; la sua storia centennale vanta una schiera di personaggi oggi riconosciuti da molti, musicisti di valore al pari dei grandi compositori del periodo neoclassico quali Stravinsky o Ravel, ed è proprio uno di questi signori di cui oggi mi accingo a scrivere cercando di porgere all'attenzione dei lettori una delle sue più belle opere. È da notare come il periodo prolifico di Coltrane, immediatamente successivo al sodalizio con Miles Davis, fu relativamente breve durando meno di un decennio. Da fine anni cinquanta fino al sessantasette, anno in cui  il sassofonista morì prematuramente a causa di un tumore al fegato, l'attività intensa del musicista gli diede modo di eccellere prima nell'hard bop, poi nel modal jazz, per arrivare in fine a metà anni sessanta al linguaggio spesso spigoloso e rivoluzionario del free-jazz. Secondo Coltrane la musica era difatti un'esperienza da vivere in totale libertà espressiva, egli stesso vedeva nell'avvento dei generi d'avanguardia una possibilità di espressione in più e non il motivo di scandalo che venne manifestato da altri musicisti quali lo stesso Davis. In meno di dieci anni Coltrane lascio un segno indelebile, la sua musica allora non apprezzata e non capita nella sua fase finale da molti, venne poi proclamata musica "colta", il suo patrimonio è inestimabile ed è riscontrabile nelle tantissime registrazioni dal vivo e in studio pubblicate prima dalla atlantic e poi dalla impulse alla quale riconosciamo tra l'altro  il merito di aver recuperato negli anni una quantità numerosissima di materiale inedito atto a mettere ulteriormente in luce la grandezza e genialità di questo musicista.

Il passaggio nel 1961 alla casa discografica Impulse lo vede dare alla luce una delle sue più belle sessioni; "Africa Brass" venne registrato insieme al fortunatissimo quartetto con il quale nello stesso anno il musicista chiuse i rapporti con l'atlantic rilasciando al pubblico il bellissimo "Olè", Quindi Elvin Jones alla batteria, Reggie Workman al contrabbasso ed un monolitico McCoy Tyner al pianoforte; i brani sono arrangiati con l'ausilio di un orchestra alla quale furono chiamati a partecipare altre grandi personalità del periodo tra cui Freddie Hubbard alla tromba e Eric Dolphy al sax alto, flauto e clarinetto basso. L'aria che si respira è decisamente modale, il "serpeggiare" del fraseggio di Trane al sax soprano apre le danze di questa versione completa con la rivisitazione in chiave jazz del classico "Greensleeves"; Il vibrante giro di basso di Workman si incastra al pianoforte di Tyner e ai fiati creando l'appoggio fondamentale per un Coltrane che non si risparmia facendoci sentire veramente piccoli di fronte alla consapevolezze di cosa riesca a fare un uomo solo con in mano il proprio strumento. Altro classico interpretato dal quartetto "Song of the Underground Railroad"; la pacatezza di "Greensleeves" viene abbandonata per un tempo decisamente più veloce e spumeggiante, il tema principale viene ripetuto per lasciare poi spazio alle lunghe improvvisazioni di Coltrane al Tenore ed al maestoso intervento di Tyner al pianoforte che stimola i condotti uditivi e la fantasia dell'ascoltatore come pochi pianisti sono in grado di fare.

Come dicevamo qualche riga sopra John Coltrane è un musicista che non ha mai disdegnato le sperimentazioni andando in cerca spesso e volentieri della novità e di sonorità ricercate e poco tradizionali, questo per il desiderio di esprimersi liberamente  e non per il tentativo di risultare originale allo scopo di accaparrarsi la stima del pubblico, tanto è vero che questa sua inclinazione gli fece perdere con il passare degli anni il consenso di parte dei suoi stimatori e dei musicisti con i quali collaborava, Tyner compreso.

Decisamente sperimentale rispetto alle altre composizioni risulta "Africa", un blues dai risvolti tribali, che proprio per la sua ricercatezza unita allo spessore ed alla carica emotiva sprigionata dal tema principale dalle improvvisazioni di Coltrane e Tyner e dall'intero contesto risulta essere uno dei  capolavori di questa sessione, insieme alla splendida ballad "The Damnned Don't cry". Quest'ultima scritta dal trombettista Cal Massey alterna dei particolari e struggenti momenti d'inquietudine ad altri del più puro e frizzante swing; il tema è eseguito dalla tromba e poi da tutta l'orchestra sopra alla quale serpeggerà il malinconico fraseggio del sax di Coltrane.

Consiglio a tutti per chi non l'avesse già fatto, l'ascolto di questa versione completa, contiene alcuni brani non presenti nella versione originale tra cui anche "Blues minor", un brano originale di Trane.

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