C’era una volta. E c’è stato tante volte.

Il momento antiorario di riflessione sulle pippe dalle gambe corte che mi hanno portato a fare tanto casino evitabile. Però è stata sempre animata e vivace la kermesse di telefonate angosciate, persone impazzite, menti agitate che riuscivo a mettere in scena fin dalla più tenera età. Come quando un pomeriggio del 5 gennaio di lustri addietro ero stato così d’avanguardia da sgattaiolare sul tetto di casa dei nonni per attendere la befana. Il babbo natale che gli altri cugini nominavano bavosi non mi solleticava più di tanto. Ma la befana sì. Sapevo che alla mia azione imprevedibile sarebbe seguita una reazione disuguale e contraria con un dispiegamento di forze (dell’ordine incluse) paranormale. E la cosa mi divertiva.

Avevo chiesto a mio padre cosa significasse democrazia e lui me l’aveva spiegato con fare “rodariano” tanto da avermi inoculato subito concetto e funzionamento della cosa. Vicino a quel comignolo pensavo che si trattasse di un sistema fallimentare perché dava la possibilità di veder rappresentate le proprie idee a gente impazzita come tutti quelli che mi stavano cercando. In cuor suo, mio padre sapeva che alla fine ci sarebbe stato da ridere. Ma mi ha cercato. Soprattutto per sapere cosa avevo pensato in quel lasso di tempo. E io avevo pensato che un giorno avrei suonato il violino del nonno. Che avrei diretto la banda del paese. Che sarei potuto diventare come mio padre e avere un figlio come me. Mi piacevo ma non ero narcisista. Sapevo di dovermi migliorare.

Quando mi sono ritrovato qualche tempo fa a pulire la canna fumaria, e quindi a salire sul tetto di casa, ho scoperto che il mondo delle tegole è bello perché tu stai su, gli altri stanno sotto e, visto che ti ci hanno mandato, sicuramente non hanno né voglia, né forza, né equilibrio per raggiungerti lì. In quel posto scivoloso (sempre meno del parterre quotidiano) dove tutto si calma e dove scopri che chi ti deve dire una cosa deve guardare dal basso verso l’alto, scandendo le parole per bene, con voce discretamente alta. Il nido di api non è un problema. Le api neanche. Sono sorprese e si schierano di guardia alcune mentre le altre vanno succhiando al piano di sotto. Ma finisce lì. Fare lo spazzacamino è divertente ma faticoso. Quando ti rivedi sul vetro della botola fuligginoso pensi a come saresti stato inguardabile con la pelle nera. Quella che, invece, ha meritato di avere John Coltrane.

Classico come una Double V-Neck guitar in una orchestra sinfonica mi suonava in testa il suo sax psicotropo potenziato e mi faceva pensare alla democrazia che ha permesso a qualcuno di insultarlo senza proferir verbo, nella fase di scrutinio delle copertine degli lp in un qualsiasi negozio di dischi. Un conservatore non ci può arrivare per deformazione politica. Come non è scontato che un progressista ne sappia intendere la rivolta personale. Io non sono né conservatore, né progressista. Io sono per il (mal)sano anacronismo analogico e quando penso a qualcosa di politico mando indietro il nastro rivedendo tutto ciò che poteva essere successo nel frattempo. Per arrivare a John Coltrane ho dovuto riavvolgere anche il ’68 ma nessuno mai mi convincerà che i fiori migliori li abbia coltivati lui. Quando stavo lassù pensavo queste cose che possono essere più incisive della descrizione di un disco per ottave. Forse doveva essere lui il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America. Lui che ha decostruito il buonismo disneyano di “spazzacamin” riedificandolo senza equilibri neoclassici, e condannando le forme di un Amore e Psiche ad essere l’iniziazione dell’uomo debole alla messa della paranoia. Riottosa e psichiatrica. Quasi un invito a vedersi dentro e ad angosciarsi per qualcosa di più del non poter arrivare a fine mese, dell’essere visti come degli esseri inferiori, del sentirsi parte dell’una sola moltitudine con orari di lavoro fissi e industriali. Forse John stava preparando la ghigliottina per le cause dei mali dell’uomo. O, forse, banalmente dei suoi.

Libero come un musicista che non agisce per spartito preso, Coltrane fa quello che vuole delle sensibilità altrui catturando l’ascoltatore e stendendolo sul lettino dell’analista per poi abbandonarlo alle sue conclusioni. Prima ti aiuta a grattare il fondo della tua dignità vinta, poi ti lascia solo. E non è cattiveria. È un modo per imparare a farti crescere e a diventare come tuo padre e avere un figlio come te. È l’overture di un percorso interiore accidentato e pieno di lontani clangori che, se avrai azzeccato il cammino, riconoscerai essere la sua musica solo dopo tanto tempo. Che lo metta in parallelo o in meridiano rispetto alla mia vita, John Coltrane sempre antiorario è. Nervoso, impulsivo, frenetico sudato pure. Come un buon musicista, fabbro, politico dovrebbe essere alla fine di ogni sua giornata.

Per me è cinque. Per gli esperti non so, ma sicuramente sarà 1965. L'anno di uscita.

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