Sono in missione per conto di Dio, e nessuno può fermarli. Chissà, forse oggi hanno smesso di correre incontro al destino ed hanno appeso le scarpette al chiodo. Di certo il loro passaggio ha fatto rumore, non è stata una semplice comparsata. Elwood e Jake, i fratelli Blues sono ormai solo un ricordo, uno di quei ricordi destinati a durare nel tempo: cravatte lunghe e strette, occhiali scuri Ray-Ban, tanta voglia di trasgressione e una passione totale per la musica (ma in fondo, per loro, è solo un modo per guadagnare quattrini) che difficilmente dimenticheremo.
I fratelli Blues sono John Belushi e Dan Aykroyd. Uno è morto, l'altro no. E quello vivo non è Aykroyd. I fratelli Blues li rese immortali John Landis, un regista che prometteva grandi cose (eccellente anche "Una poltrona per due"), ma che poi si è perso nello zoo hollywoodiano. Era il 1980 quando "The Blues Brothers" uscì nelle sale, e fu subito mito. Elwood e Jack entrarono subito nel cuore del pubblico: geniali, folli, pasticcioni, triviali, incontenibili. Quella esuberante voglia di libertà, quell'anarchia di fondo che si palesava in ogni gesto ed in ogni parola, quel modo alternativo di dissacrare il modello perbenistico americano furono la chiave di volta di un successo che sembra non voler ancora scemare.
Tra i due fratelli Blues il più anarchico era Jake, cioè John Belushi in persona. Dalle trivialità di "Animal House" all'incontenibile freschezza di "The Blues Brothers" il passo è breve: John era uno sregolato intelligente, uno che non conosceva mezze misure, come al cinema (cioè nella finzione) così nella vita (cioè nella realtà) amava vivere la vita al massimo, vivendo tutto adesso e subito, senza aspettare, anzi, soffrendo quando c'era da aspettare. Notti folli e passioni indescrivibili, tra John Belushi e Jake Blues non c'era differenza, e credo che non abbia avuto nessun problema ad interpretare i suoi personaggi. Ha preso in giro tutto e tutti, ha preso per il culo l'America e la vita, se ne è andato a 33 anni per aver giocato un po' troppo con la cocaina e l'eroina.
"The Blues Brothers" è John Belushi, ma è anche altro. E' un film che smonta dal di dentro le tecniche cinematografiche più abusate. Chi pensa che un film per funzionare abbia bisogno di una sceneggiatura di ferro sbaglia di grosso. La sceneggiatura di questo film l'avrebbe potuta anche scrivere un bambino un po' sveglio appena uscito dalle elementari (invece è opera di Aykroyd e Landis). La storiellina, esile esile, di due squinternati che non vogliono vedere fallito l'orfanotrofio in cui sono cresciuti, è poco più di un canovaccio altamente elementare che, in mano a qualche regista dissennato, avrebbe potuto rischiare di naufragare dopo mezz'ora. Dunque, quel che colpisce di questo film è l'assoluta genialità dell'intreccio: le sequenze sono così potenti e volutamente epiche da far dimenticare che razza di banalissima storiellina stiamo guardando.
"The Blues Brothers" è il classico film che si riempie d'orgoglio da sé (non si contano le scene madri) ma che non si intoppa mai, proseguendo dall'inizio alla fine senza nemmeno aggrovigliarsi o disperdersi. Un film lungo quanto un sogno, quanto un road-movie un po' scalcinato, buono per farsi due risate e ripassarsi alcuni classici del blues. Un film a metà strada tra le ironie del Saturday Night Live (da cui sono usciti Aykroyd e Belushi, ma anche Eddie Murphy) ed il ritmo televisivo delle classiche serie Tv made in Usa, da "Miami Vice" a "Starsky & Hutch" (si veda tutto il lungo inseguimento finale per le strade di Chicago). Il tutto condito con battute spassosissime al limite della demenzialità.
Ed alcune cose, con tutta la buona volontà, proprio non riesci a mandarle via dalla testa: Jake che esce dalla galera e sulle nocche delle mani ha tatuato il proprio nome e quello del fratello (citazione, bellissima, di "La morte corre sul fiume" in cui il protagonista, Robert Mitchum, sulle nocche ha tatuato le parole ‘amore' e ‘morte'); la prima esibizione della band in cui Elwood e Jack attaccano a cantare la leggendaria "Everybody needs somebody"; la scenetta comica al ristorante (esilarante Belushi che parla con chiaro accento russo); le bacchettate sulla mano che la Madre Superiora assesta ai due fratelloni per redimerli (ma ormai è troppo tardi, verrebbe voglia di sussurargli); la suddetta fuga per le strade di Chicago, in cui effettivamente le macchine coinvolte nei vari incidenti vennero sfasciate e distrutte.
A rendere ancora più prezioso ed inarrivabile questo film, ci pensano le abbondanti comparsate sparse qua e là. James Brown, scatenato predicatore; Aretha Franklin, che canta "Respect" all'interno del bar da lei gestito (quasi un monumento di bellezza); Ray Charles, venditore di strumenti musicali; Cab Calloway intento a cantare la stupenda "Minnie The Moocher"; il regista Frank Oz, l'ufficiale del carcere; Steven Spielberg, l'impiegato che riscuote il denaro che i fratelli Blues recapitano all'ufficio imposte alla fine del lungo inseguimento; lo stesso John Landis, nel ruolo di La Fong, di professione poliziotto. Ed una buona dose di divertimento che, nonostante 27 anni di visioni e sezionamenti continui, non sembra voler tramontare. Giustamente.
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