Oggi si fa epica con tutto, in modo indecente e blasfemo. Cloni degeneri di Omero affollano le redazioni di tutte le testate giornalistiche, come anche le agenzie pubblicitarie, e la televisione prima ancora della carta stampata è divenuta il medium precipuo di questo neoepicismo. Basta guardare "Sfide" per realizzare che il racconto epico poteva adattarsi a Coppi, Bartali o Binda mentre per i vari Maradona, Comaneci, Spitz o, peggio, la nazionale italiana dei mondiali 2006 non vale neanche la pena di togliere il tappetto alla biro, per scriverne.
Quanto al cinema, è un altro discorso. Esso è il mezzo più importante per cercare, oggi, di raccontare epica. Eh, sì. Perché, a pensarci bene, il cinema oggi ha lo stesso ruolo che aveva la declamazione al pubblico secoli fa, quando gli aedi recitavano in piazza i versi glorificanti i vari Ulisse, Giasone, Orlando, Enea. All'epica non basta la carta stampata, questo è chiaro, ci vuole qualcosa che stimoli insieme i sensi e la fantasia : cosa, dunque, meglio del grande schermo di un cinematografo ? Però, dal semplice possedere lo strumento al prodotto finito ce ne passa, e infatti i risultati spesso o sono banali o involontariamente comici. D'altra parte quando il regista coglie nel segno, con un colpo misurato e deciso, allora il film riesce splendido e assume un significato che trascende la sua semplice natura tecnica. E' il caso di "Big Wednesday" il capolavoro riconosciuto di John Milius, un film generazionale, un western dall'ambientazione anomala dove si cavalcano le onde anziché i cavalli, ma che western rimane per quanto confidenzialmente tratta i temi dell'amicizia tra uomini, per quanto poco spazio lascia alla donna, per il modo profondamente leggero con cui si dedica all'esposizione della filosofia che lo anima e anche perché Milius non ha mai nascosto l'influenza che hanno avuto su di lui autori come Leone e sopratutto Peckinpah.
Chi ha visto "Il mucchio selvaggio" noterà come lo spirito di quel film più volte riemerga in questo film e nel precedente "Il vento e il leone". Tornando a bomba, "Un mercoledì da leoni" è la storia di una generazione raccontata attraverso le vicende di tre amici surfisti e scandita dal succedersi di quattro mareggiate che simbolicamente ricordano i terribili eventi che a cavallo tra gli anni sessanta e settanta hanno travolto gli statunitensi: gli assassini di Kennedy e Luther King, la contestazione giovanile, il Watergate e su tutti la guerra del Vietnam. Milius sembra rivendicare alla sua generazione il diritto di vivere una vita tranquilla e così di conseguenza le quattro mareggiate che i tre protagonisti si trovano a cavalcare, almeno su di loro non lasciano segni. La loro è una difficile sopravvivenza schiacciati e sopravanzati da una nuova generazione agguerrita e rivoluzionaria, loro che sono in tutto e per tutto gente dei fifties. La prospettiva nella quale il regista riprende i passaggi più importanti dell'esistenza dei tre amici è umanistica: la guerra, anche se è una presenza incombente non la si vede, ma viene descritta attraverso le immagini del reclutamento con i nostri umanissimi eroi che fingono chi la pazzia (Leroy), chi un ginocchio malconcio (Matt), chi un'esibita omosessualità (Waxer). Ma c'è anche chi come Jack consapevolmente accetta di andare in Vietnam. In fondo lui è la coscienza del gruppo, ha al suo fianco una ragazza che vuole sposare (è la mitica Lady (Patti) D'Arbanville, ma forse Yusuf ha rinnegato anche il suo ricordo) riesce subito ad essere assunto come bagnino mentre gli altri restano ancora gli irriducibili del cazzeggio. Matt, che è già un mito del surf, in particolare sembra il più inadatto ad inserirsi nella vita civile, nonostante abbia già una moglie ed un figlio. Leroy dal canto suo è totalmente immerso nella sua bizzarria da essere incrollabile, qualsiasi cosa faccia e con la pervicacia della sua faccia tosta qualcosa sembra riuscire a farla. Waxer è il più sfortunato. Le sue recite all'ufficio reclutamento non sono valse a nulla, viene sbattuto al fronte e muore ammazzato. Nonostante i piccoli problemi quotidiani e i grandi accadimenti mondiali, i tre, davvero superstiti, si ritroverrano sempre, ogni volta che il mare deciderà di spazzare via la costa. Fino all'ultima grande mareggiata del 1974, quando Jack, Matt e Leroy si incontrano forse per l'ultima volta e insieme, in barba agli avvertimenti del guardiacoste e per la gioia degli appassionati che sono venuti ad ammirare, si uniscono ai nuovi assi del surf in mare. N
ell'ultima scena il racconto epico tocca il suo apice emotivo, glorificando un'intera gioventù e una condotta di vita che di darla vinta alla morte proprio non vuole saperne. E così tra mirabolanti riprese "acquatiche", bagni di violenza messicana, scazzottate amichevoli e l'intensa colonna sonora di Basil Poledouris si arriva all'epilogo dolceamaro, ma che in cambio delle illusioni con cui ci siamo nutriti fino alla maggiore età restituisce la serenità che dobbiamo conservare dinanzi a tutto. "Big Wednesday" doppia qualitativamente l'altro presunto capolavoro sulla gioventù americana "American Graffiti" ma difetta di un particolare di capitale importanza: non compare nella lista dei "top 100" di Poletti.
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