Dedicato agli Stati Uniti di fine anni 60: l'inizio e la fine di tutto.

Il cinema americano di quegli anni è stata una creatura che ha respirato da sola, ed ha lasciato tentativi visionari, immagini distorte, soprattutto uomini VIVI. Basta dare un'occhiata alla città di New York catturata nelle pellicole dell'epoca per captare quella strana luce che sembra inondare tutto: palazzi, parchi, angoli di strade, grovigli di persone. L'America sembrava avere davvero qualcosa di magico, tanto nella celluloide così come nella musica e negli avvenimenti storici. Grande come l'universo, era popolata da ogni sorta di forma vivente e pseudo-vivente, e celava al suo interno un numero incredibile di "microcosmi" fatti di strade, di uomini e di polveri di stelle. Quello fu davvero un momento irripetibile: l'AMERICA!… il PERNO tra quello che era stato e quello che sarebbe arrivato, tra vecchie e nuove convinzioni, tra radio e tv, tra povertà e povertà, tra terra e luna. Odiata e amata da tutti, si scoprì che anche dentro quell'idolo strisciavano i vermi. E allora eccoli lì i microcosmi del mondo, GUARDA! si mischiano con colori psichedelici, VIOLA, ROSSO, ROSA, GIALLO! Si sciolgono in un grande serpente ininterrotto di politicanti grigi, di ragazzi dai capelli corti e lunghi, di nullatenenti, di artisti, di icone; e ancora, pazzi, angoli nascosti, sesso, chiacchiere da bar, speranze, donne meravigliose, bambini che saranno uomini e uomini che saranno polvere, killer, cani, reduci del Vietnam che hanno cominciato tutto in qualche fattoria del mid-west ed hanno finito tutto nel 1978 con un ago ancora infilato nel braccio.

"Un uomo da marciapiede" (Midnight Cowboy, 1969) resta uno dei più bei film di quegli anni insieme ad "Easy Rider" e "Il Laureato". Narra la storia di Joe Bucker, un ragazzotto americano di provincia (John Voight) che decide di recarsi a New York per fare il gigolò, ma non troverà vita facile. Ed incontrerà Rico, un povero immigrato italiano zoppo (Dustin Hoffman), con cui dapprima avrà qualche grana, ma col quale stringerà in seguito una solidissima amicizia. Insieme tenteranno di sopravvivere nel più grande dei culi del mondo, New York. Cercando poi nel finale di raggiungere il sole della Florida.

I personaggi e le macchiette che sfilano in questo film sono le più disparate, chi più e chi meno abitante del grande universo a stelle e strisce: strambe donne mature, pseudo-artisti, pazzi religiosi, vittime della vita, ragazze fragili, ogni sorta di poveraccio. La Grande Mela è rappresentata come il palcoscenico per i respiri delle più irreali e criptiche apparizioni umane. La telecamera si abbandona talvolta al realismo, mentre le atmosfere sono volutamente soffocanti, più o meno immerse nella psichedelica pura. Da citare senza dubbio il momento del party al quale viene invitato John Voight: atmosfere da trip acidissimo, musiche distorte, colori che si sciolgono. Qui è d'obbligo il collegamento con l'altro grande "viaggio chimico" del 1969: la parte di "Easy Rider" che si svolge al cimitero. Perché le telecamere di quegli anni si facevano l'occhiolino tra loro: la prassi erano le zoommate veloci e i primissimi piani. Per cogliere meglio l'espressione dei volti, per osservare l'essere umano in tutta la sua pulsante VITA.

Dustin Hoffman nel film è quasi sempre malato, tossisce continuamente e il sudore gli gronda dalla fronte. Tutto questo incolla lo spettatore alla poltrona, che vive effettivamente la vicenda fin dentro la pelle. Non mancano però momenti di riso, anche se amaro, quasi sempre con Hoffman protagonista. Questa è una delle sue interpretazioni migliori, in assoluto; Rico rappresenta la vita, come essa possa essere crudele e amara, e come tuttavia possa strappare un sorriso, anche se forzato e isterico. Riguardo Voight, egli non fu la prima scelta per il film, ma il risultato è azzeccatissimo.

Altra cosa in comune con i film dell'epoca (vedi "Il Laureato") è la presenza di una grandissima colonna sonora, qui ad opera di Harry Nilsson, con la splendida "Everybody's Talking" (pensare che la prima scelta era caduta su "Lay Lady Lay" di Bob Dylan, ma non fu finita in tempo per il film). E meno male, perché EPOCALE e bellissima è la scena iniziale a New York, dove Voight cammina tra la folla col cappellone texano in bella vista, e con la canzone in sottofondo.

Bellissimo è anche il tema strumentale del film, che accompagna benissimo le scene di movimento nella città, la desolazione notturna con le luci al neon in lontananza, e soprattutto la scena finale che, come ne "Il Laureato", si svolge su un pullman. La faccia di Voight riflessa sul vetro è la faccia di chi è maturato ma non sa ancora cosa incontrerà. E' la faccia di uno che sta attraversando il PERNO, insomma, in uno dei più folli periodi del secolo scorso. La chiusura di questo film è una delle più belle perle di sempre.

Dedicato agli Stati Uniti di fine anni 60: l'inizio e la fine di tutto.

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