Quanto sia difficile trasporre un testo come quello del Giulio Cesare shakespeariano lo dimostrano le scarsissime pellicole che hanno rivisitato l'opera, in confronto all'Amleto e all'Otello, per non parlare di Giulietta e Romeo, che oltre ad un numero elevatissimo di riletture ha fornito la materia alla maggior parte delle storie d'amore successive all'epoca elisabettiana.
Questa versione del 1953, diretta da Mankiewicz con la partecipazione di attori molto noti e con un budget di partenza considerevole, rappresenta tutto ciò che bisognerebbe evitare nel momento in cui si decide di portare elle sale un'opera letteraria. Ma andiamo con ordine.
La tragedia racconta le ultime ore di Giulio Cesare, fresco vincitore nella guerra civile che lo aveva opposto a Pompeo: l'azione risulta quindi dilatata entro poche ore, meno di una giornata la prima parte (quella più nota), in cui i discorsi dei protagonisti sembrano fluttuare in una dimensione quasi onirica, attorcigliarsi e ricadere su se stessi. Fa da contorno una città animata da presenze oscure, il cui cielo è squarciato da segni divini, comete, eclissi, le cu strade sono popolate da esseri irreali, presenze inquietanti, processioni notturne... La tensione procede aumentando ad ogni scena, insinuandosi tra i discorsi subdoli di Cassio, tra i versi assennati di Bruto, nelle parole altezzose venate di dubbio di Cesare fino alla scena dell'assassino: qui si ha la Catastrofè, l'attimo in cui la tragedia si risolve, la tensione si libra dalla mente che prima offuscava. La seconda parte della tragedia vede alternarsi sul pulpito i vari capi delle fazioni in lotta, in una disputa che prima è verbale, e poi, spostatasi fuori da Roma, bellica.
Fin qui la tragedia di William Shakespeare. Ma il film di Mankiewitz racconta ben altro, non tanto nella scelta delle scene (la fedeltà è totale), bensì nell'approccio alla materia, nella consapevolezza dell'ambiente che circonda i personaggi, nell'anima. Fa riflettere (ma forse neanche più di tanto se si pensa che siamo ad Hollywood) sapere che il film vinse l'Oscar nel 1953 per le scenografie, quando queste sono diametralmente opposte a quanto era nello spirito dell'opera originale: la Roma torbida e confusa del poeta inglese divine ora una solare e spaziosissima capitale alla moda, ornata da statue imperiali e monili orientali in un gioco di anacronismi che trova un parallelismo nelle coeve produzioni di kolossal in costume.
I personaggi si muovono in questi ambienti aperti e solari in modo forzato e puerile, ma lo fanno senz'altro per colpa di un regista interdetto: la pellicola è pervasa dalla fretta palpabile di chi deve far stare in due ora una tragedia di cinque atti, e senza tagliare niente dell'originale.
La dimensione originale della tragedia viene così snaturata; Giulio Cesare è un dramma saturo di tensione, in cui i caratteri dialogano continuamente tra loro ma lo fanno in maniera disinteressata. È una tragedia dell'individualità, in cui i personaggi, dal migliore al più abietto, sembrano più interessati alla propria dimensione interiore che al vero e proprio scambio di battute: prima che Cassio parli Bruto è già convinto del delitto che dovrà compiere, e prima che la moglie gli comunichi il suo turbamento è lo stesso Cesare a dolersi dentro. Di questa complessità non rimane niente nella trasposizione di Mankiewitz, che accelera i tempi eliminando ogni pausa, ogni silenzio, ogni vuoto. Se a questo di aggiunge una recitazione volutamente teatrale (contro la quale, ironicamente, si scagliava proprio Amleto nel suo dramma) si noterà come ben poco si possa salvare.
Quel poco appunto che possa ricordare da vicino la grandezza classica ce lo offre ancora una volta la superba interpretazione di Marlon Brando. Nei panni di Marco Antonio si erge sul pulpito per ricordare il padre/amico/protettore Cesare: e allora è un fuoco, negli occhi, nelle vene, che si accende ad ogni parola, ad ogni silenzio (qui si che il regista fa il suo lavoro dettando bene i tempi): mai sopra le righe, mai sotto tono, questo Marco Antonio che vediamo sotto i nostri occhi ha la grandezza non solo di quello shakespeariano, ma anche di quello plutarcheo, di quello ciceroniano... di quello VERO.
Per il resto, anche nel finale (con la sola eccezione appunto delle parti di Antonio) il film ritorna ai suoi standard bassissimi: quando il testo originale si avvicina maggiormente allo stile declamante e teatrale del regista, allora il risultato è grandioso, ma ogni volta che ritorna a momenti più riflessivi e pacati, con essi fa di nuovo breccia la più insulsa banalità.
Un peccato.
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