Nel capitolo precedente avevo accennato al fatto che, tra i meriti di Jules Massenet, c'è anche quello di aver contribuito in maniera decisiva a conservare e portare avanti le peculiarità stilistiche dell'opera francese. I soprani di coloratura, ad esempio, voci virtuosistiche e protagoniste assolute ai tempi di Mozart e poi Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi (fino alla Traviata) e, in ambito francese, "papà" Meyerbeer; cadute relativamente in disuso in Italia e Germania nella seconda metà dell'800, in Francia invece sono rimaste al centro dell'attenzione grazie a Offenbach, Gounod, Delibes e appunto, Massenet, che più di tutti questi si è dedicato assiduamente al teatro. Massenet che, reduce dal successo di Werther, cambia completamente ambientazione e sonorità, ripresentandosi con un'opera ben più opulenta e di ambientazione esotica, ma altrettanto profonda e di spessore drammatico e simbolistico anche maggiore: Thaïs, con un ruolo protagonistico stellare sia per fascino che per difficoltà tecnica.

Purtroppo questo aspetto ha anche un risvolto negativo: Thaïs è spesso considerata un'opera da rispolverare di tanto in tanto come "vetrina" per il virtuosismo del soprano di turno, quando invece è un dramma che propone il classico, eterno conflitto tra eros e spiritualità in maniera originale e con autentico spessore intellettuale, oltre ad essere un capolavoro musicale a tuttotondo, intenso e ricco di colpi di scena. La vicenda è ambientata in Egitto, in un'epoca storica che generalmente si tende ad ignorare e/ fingere non sia mai esistita, quella della convivenza tra il cristianesimo in ascesa e la religione greco-romana in declino: da una parte il pio, virtuoso monaco Athanael, dall'altra Thaïs, attrice, prostituta e sacerdotessa di Venere. O almeno così parrebbe, perchè la "purezza" di Athanael è solo di facciata: ruolo baritonale, estremamente ben concepito al pari della protagonista, è un personaggio che per molti aspetti anticipa Jochaanan nella Salome di Strauss, stessa vuota arroganza settaria, stesso compiacimento della propria presunta superiorità morale, stessa innaturale automortificazione. Il suo ossessivo desiderio di convertire la "peccatrice" nasce ovviamente dalla vanità e dal desiderio represso ma, a differenza di Jochaanan, in Athanael c'è anche un'umanita che a poco a poco si rivela, ed è per questo che, oltre a passaggi molto aspri e declamatori, il ruolo abbonda anche di ariose melodie, richiedendo così un interprete esperto e di assoluto spessore.

Tra i "pagani" non và dimenticato Nicia, l'amante di Thaïs, personaggio gaudente e libertino ma anche magnanimo, generoso e in pace con sè stesso, quasi una personificazione della mentalità romana dell'epoca d'oro di Adriano e Antonino Pio, completamente l'opposto del torbido e tormentato Athanael; Thaïs, dal canto suo, è una seduttrice priva di malizia, così apparentemente forte, in realtà dolce e vulnerabile; tutto il suo tormento interiore si esprime nell'aria più celebre di quest'opera, "Dis moi que je suis belle", così intensa, accorata e voluttuosa da mettere i brividi, complici anche quegli acuti che richiedono un'assoluta padronanza tecnica del registro alto e un timbro cristallino per funzionare a dovere. Ma tutta l'opera è un continuo florilegio di melodie, di duetti carichi di intensità emotiva ed innumerevoli altri splendori; la cosiddetta "Méditation", struggente melodia per orchestra e violino solista, è tra gli intermezzi operatici più belli di sempre, il lungo balletto del secondo atto, sviluppato su uno dei tanti leimotiv orientaleggianti di cui è piena l'opera, una splendida finezza da Grand Opera, a cui segue a stretto giro di posta "Celle qui vient est plus belle", spettacolare cantata a tre voci con accompagnamento cameristico, un inno a Venere in cui sensualità e spiritualità, i due cardini di quest'opera, riescono ad esprimersi in un ammaliante linguaggio comune.

A proposito di leitmotiv, il breve preludio della seconda scena del primo atto, con quell'avvolgente tessitura di archi su cui spicca la spavalda melodia di un corno francese è un qualcosa di degno del miglior Richard Strauss e, più in generale, tutte le musiche associate a personaggi e ambientazioni "pagane" risplendono per evocatività, bellezza ed ispirazione. E poi c'è quel finale: la crisi di Athanael, che finalmente capisce la vera natura del suo legame con Thaïs; capisce che, cercando di "redimerla", condannandola ad una vita di espiazione dei suoi presunti peccati, non ha portato altro che dolore per entrambi. Alla fine, davanti ad una Thaïs morente, in preda al delirio mistico, così lontana dal mondo da non riconoscerlo neppure, le dice, testualmente: "Ti ho mentito!... Nulla è vero se non la vita e l'amore tra gli esseri... Ti amo!". E questo è il momento della redenzione, per il "santo", non per la "peccatrice", quella redenzione attraverso l'amore che si compie in una maniera così diversa da quella manichea, canonica, financo banale proposta da Wagner del Tannhauser. Thaïs è anche questo, un'opera dal contenuto moderno e coraggioso, e con un fascino veramente unico nel suo genere. Il fatto che sia stata una perfetta "vetrina" per la favolosa Beverly Sills, tra le altre, ovviamente non guasta, ma quello viene dopo.

Carico i commenti... con calma