I dischi di Kamasi Washington sono impossibili da finire. Belli, per carità, ma dal vivo è proprio tutta un'altra musica. La definizione che mi è venuta è quella di “prog jazz” che è un po' un assurdo ridondante ma ben identifica la potenza, la ricchezza, ma anche la leggerezza e la ballabilità black con cui tutto si dipana.

Su disco sembrano messe cantate. Dal vivo emerge tutta la spregiudicatezza del sassofonista che con i suoi assoli sembra far rivivere l'irruenza primordiale del rock e del metal, il sax come nuova chitarra elettrica che è strumento politico e arma virile, per non dire machista. Non è un caso che dopo ogni assolo, suo o di uno degli altri membri, qualcuno proclami sempre il nome di chi l'ha eseguito, per rendergli il giusto merito: è una prova del nove erotica, un tour de force arrapante che a turno riguarda tutti i membri dell'ampia banda. E in un angolo la cantante Patrice Quinn balla e fa gesti di ammirazione stregata, come una sabina pronta al ratto.

In due ore di concerto i pezzi eseguiti saranno stati sei o sette, ma mai la noia ha fatto capolino. Le canzoni, già lunghe su disco, vengono trasfigurate, ribaltate e dilatate, dando spazio ai virtuosismi dei singoli che non risultano però mai scollegati dal contesto. Sembrano riarrangiamenti più che improvvisazioni, ma non dubito che venga dato ampio spazio all'arbitrio indiavolato di Kamasi. E il tempo vola, venti minuti di brano non li vedi nemmeno, perché sei stregato da quelle mani che creano, da quel fiato che non manca mai. Solo l'eccitazione live può restituire la potenza quasi brutale di questi musicisti, che fanno un po' gli sbruffoncelli per quanto sono bravi.

Certo, i temi principali tornano, qualche ritornello c'è, ma lo spazio dato alla cantante e alle scansioni originali dei brani sembra questa volta ancor più esiguo (l'ho visto anche nel 2016), in favore di una forma libera, sempre nuova, di orgasmo musicale. Viene da riflettere su cosa sia quell'eccitazione, perché le note riescano a titillarci così. Come fa quell'omone a partorire simili cattedrali sonore che hanno però l'irruenza primitiva di un ominide che picchia a terra con il bastone? Sarà una questione matematica, di ripetizioni e variazioni, di accelerate e frenate, come sempre è la musica: ma come si fa a farlo così bene, così velocemente, con tale nonchalance e per tempi così lunghi? Davvero, certi assoli sono infiniti (eppure immediatamente gustosi, in ogni loro parte). Quest'uomo è un mostro.

Comunque, come dopo ogni orgasmo c'è la risacca, bisogna riprendere fiato, ma a questo ci pensa la sezione ritmica: due batteristi, le tastiere, il contrabbasso, che quando non entrano nel cono di luce fanno comunque un lavoro in ombra che però si fa notare, con ritmi sfalsati, note di basso dense, campiture sonore deliziose.

Il gigante nero con il berrettone (anche d'estate) ha pubblicato canzoni sensazionali di recente, come “Truth” o “Fists of Fury”. Brani che ti fanno pigliare un coccolone anche su disco, qui diventano delle bestie enormi. E la gente intorno balla, oppure qualcuno va in fissa, ipnotizzato dal profluvio di note sparate nel cielo milanese.

Carico i commenti...  con calma