Non dire tutto, o quasi niente, in quest’epoca iper-esposta credo sia diventato indispensabile per esprimere una certa bellezza, che vive nell’intimità e nei silenzi, quelli mai totali della vita, e che raramente si può definire a parole. Io stesso, le mie esperienze, le vostre vite, non c’entrano niente con le parole. Perché le persone dovrebbero perdere tempo a cercare di definire qualcosa che è già speciale? Non esistono parole importanti. Altrove invece, in altri regni, diventa più facile tornare bambini, stupirsi e farsi spaventare dal peso dei desideri e delle paure, tramandati come un dovere ereditario da tempi antichissimi e da troppi uomini. Per ascoltarci, per produrre un cambiamento, per riconoscere la fragilità e la debolezza che ci portiamo dentro, per affermare finalmente la nostra unicità, dobbiamo fare spazio dentro di noi. Tra una persona e l’altra, tra un giorno e l’altro, tra una casa e l’altra, tra un appuntamento e l’altro. È un percorso che, per quanto difficile, prima o poi, in un punto impreciso dello spazio-tempo, magari ci porterà all’illuminazione, a vivere cioè la nostra vita onestamente e pienamente, a riconoscerci, ad arricchirci e a diversificarci.

Così, in “Healah Dancing” è come stare seduti in un’ampia e luminosa sala d’attesa, guardarsi attorno, perdersi nei ricordi aspettando qualcuno che forse non tornerà mai, sfogliare la propria personale collezione del dolore. E poi, in “Field”, uscire a prendere una boccata d’aria, magari levarsi le scarpe sfiorando l’erba e respirando il profumo della pioggia appena caduta. Sentire i primi raggi di sole, l’odore della terra bagnata e dell’acqua che evapora, apprezzare la distanza e la solitudine, piccoli stratagemmi, validi sistemi di autodifesa contro il presente. “Petrichor” è malinconica, dolce, orientale, minimale, un haiku in musica, presa così, sotto un’improvvisa e leggera pioggia primaverile, in un momento di estatica sospensione.

In “Earnestly Yours” e “Josella” c’è la stessa malinconia e fragilità, un uomo alle prese coi suoi vuoti che si apre in maniera totalmente sincera e senza filtri. In “Nearly Curtains” c’è la città distante, ci sono ragazzini che giocano nel giardino accanto, o al parco, e quel frammento di dolcissima e gioiosa intesa con loro, fatta solo di sguardi. C’è una breve irruzione d’ansia o malessere, prima del finale, che ribadisce in un piccolo e semplice grido di gioia la verità ultima dei bambini.

In “Emissary” di nuovo la lontananza, la gente di passaggio, porte che si aprono, passi rapidi, e un’impronta generale sempre sincera ma riservata, particolare, definitiva. Come se ogni cosa fosse davvero pronta a illuminarsi davanti a giovani anime sensibili e discrete, rivelando però in quella luce anche il suo contrario. Uno spazio totale, oscuro, vibrante e misterioso (“Elevator Song”).

C’è sempre il violoncello di Ren Ford ad accompagnare il piano. E aerofoni risonanti. Tutto qui, per un affresco emotivo che potrà ricordare Max Richter e Jonny Greenwood, Olafur Arnalds e gli Arcade Fire di Her, Peter Broderick e Philip Glass, pur mantenendo una dimensione profondamente originale: Romantic Works (2014), primo album strumentale di Keaton Henson.

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