UN LUNGO (TROPPO LUNGO!!!) PROLOGO (IN DUE PARTI, PER GIUNTA) INDISPENSABILE MA INUTILE, AD UNA RECENSIONE CHE NON C’E’.



PROLOGO


Parte 1: stereofonia/stereofobia.
Si dice (un vecchio amico lo diceva a proposito delle donne, ma non credo affatto sia questione di sessi) che ad alcuni la testa serva solo a separare le orecchie, intendendo così riferirsi alla presunta inutilità o inoperosità di quanto contenuto nell’apposito spazio previsto nel cranio
Sono tra costoro. Sono, cioè, assai lieto di questo impianto stereo che ho in dotazione da sempre, tuttora in discrete condizioni.
E del fatto che tra un recettore sonoro e l’altro la distanza sia garantita dalla presenza di un contenitore, vagamente sferico, di sinapsi. Spesso mantenuto ad un regime minimo di funzionalità (tanto, in genere, quando lo sforzo più del dovuto combino guai)
E’ un impianto al quale sono abituato, nemmeno mi accorgo di portarlo a spasso, si attiva in automatico ed ha una recettività che mi sembra rispettare gli standards medi.
Richiede una manutenzione minima, che gli dedico volentieri con un certo piacere (che strana sensazione l’acqua nelle orecchie)
E raramente mi procura fastidi.
Qualche volta, però, è come se soffrisse di sollecitazioni eccessive: troppe informazioni sonore, troppi stimoli. Coinvolgimenti di zone del sovrastante chewing gum attorcigliato al quale deve trasmetterle, che generano non solo sensazioni, ma echi di sentimenti!!!
E chi li aveva richiesti? Io no, di sicuro!

Insomma, i suoni giungono, da entrambi i lati della zucca, portandosi appresso tutto il loro armamentario di rimandi, citazioni emotive, larve di ricordi, poesia d’accatto, impulsi intrecciati…
In certe occasioni tanta grazia mi causa fastidio, mi irrita: non la voglio!
Si tratta, in quei casi, di una forma di rifiuto che per comodità chiamerò, probabilmente con termine improprio, stereofobia.

Parte 2: me lo dia /se lo riprenda
Però certo, chi non si è mai abbandonato a quella espressione vagamente idiota, imitazione involontaria di altri piaceri che ci colgono a difese (e cintura) allentate, sotto l’effetto angelicamente diabolico di quella progressione di accordi? E a quelle voci che sembrano aver inventato,lì per lì e just for you, just for me, il misterioso anello sonoro di parole del quale non ci libereremo, nonostante i goffi esorcismi consistenti nel nostro canticchiare: nel chiuso dell’abitacolo andando al lavoro e poi anche lì, sotto gli sguardi pietosi di altri umani. Anche loro, in altri momenti, colti dalla stessa beotitudine. Ma oggi no, oggi possono guardarci così, mica l’hanno sentita, loro, quella maledetta canzone!
E’ il potere, sottile e spietato, della melodia.
La puoi condire in tutte le salse, mascherarla, seppellirla di frastuono, farla a pezzettini in modo che giunga con ritardato effetto sorpresa, camuffarla con i proverbiali trattamenti “estremi” - Parentesi ne approfitto: quel termine, così abusato nel lessico “recensorio” mi provoca l’orticaria. Chiusa parentesi - puoi farne quel che ti pare, ma alla fine di quello si tratta. Quando lei è in azione, ed è in forma, sei fottuto.
Se non agisce, se è sottotono, troppo “costruita” o senza magia, puoi distrarti, sei libero.
L’altro suo compare, il ritmo, le dà quasi sempre una mano: sotto l’effetto di quei due, combinati a dovere, l’espressione della quale parlavo sai quante volte…
E si tratta di un bel mistero: mica lo sai spiegare perché certe si e certe no, perché quelle che ti beccano subito dritte dritte e sembrano così facili, semplici, abbiano impiegato qualche migliaio di anni e magari uno sconosciuto ragazzino che provava in un garage dall’altra parte del mondo, per arrivare, un pomeriggio qualsiasi, sin dentro ai tuoi padiglioni improvvisamente iperrecettivi….
Ecco, detto questo (e mi fermo perché comincio a divertirmi, ma ho deciso di non superare le 20.000 battute) detto cioè che sono un povero, ingenuo, debole ricettacolo ambulante di melodie infingarde, come voi, come tutti (come, soprattutto, i guerrieri dell’ “estremo”: spiateli, quando credono di essere soli…), torno un po’ indietro.

Un’altra cosa che accade a queste due conchiglie carnose, è la percezione del suono: non organizzato, non previsto, generato accidentalmente, meccanicamente, organicamente, da tutto ciò che è, da sempre.
In principio fu il verbo, si. Ma mi sa che era un suono, che dici?
Anche lui portatore di qualcosa. Anche lui associato ad immagini e sensazioni: quella porta che cigola, le tue unghie sulla lavagna, la vibrazione del tuo cazzo di telefonino sul piano del tavolo, (avevi letto solo le vibrazioni del tuo cazzo e ti eri immaginato una protesi meccanica, vero? Anch’io, rileggendo) il respiro di uno sconosciuto di fianco a te, al cinema (perché sembra ansimare? E’ un film per famiglie…) la spettacolare ritmica degli ingranaggi di quella chiusa, 18 anni fa, accanto alla casa in affitto, nell’entroterra ligure…
Anche lui abusato (quella porta che cigola ha veramente assunto toni grotteschi, ora basta, un po’ di grasso e trovate qualche altro effetto, please) e stereotipato, perbacco, certo.
Ma certe volte, quando non vuoi tutto il corredo che ritmo e melodia ed armonia (si lo so, di lei non abbiamo parlato, ma chiudi un occhio. Non è mica accademia, si ciancia) si portano appresso, quando davvero non ne puoi più di significato, di sensibilità e raffinata scrittura emotiva, di personali visioni poetiche dell’esistenza, di allegria in 4/4, di tanto ben di Dio (e capita di non volerne più, di aver bisogno di fare il vuoto,no? L’avevo chiamata impropriamente stereofobia, mi pare) allora puoi declinare l’offerta.
Di fronte al corredo tentatore avevi detto me lo dia? Bene, ora puoi dire: se lo riprenda.
Ed immergerti in un suono.

LA RECENSIONE CHE NON C’È

Non molto tempo fa, tra i commenti ad una mia paginetta, un gentilissimo DeUtente mi segnalò un musicista, del quale non sapevo, e ancora no so, quasi nulla (dammi tempo, Qzerty, ho bisogno di tempo: troppi dannati dischi, troppe sirene ovunque): Alvin Lucier.
Ma questo sarà argomento della prossima “recensione” in 12 capitoli e 4 prologhi (scherzetto: i capitoli sono solo 9 - :-) Comunque, cercando informazioni su Lucier mi sono imbattuto in un altro nome, e poco dopo, nell’ultimo disco di quest’altro nome.
Il nome è quello di Keith Fullerton Whitman, il disco si intitola “Recorded in Lisbon”.
E’ una sola traccia, registrata “live” a Lisbona, il 4 ottobre 2005.
E’ l’ultimo di una serie di lavori che Whitman dedica alla propria indagine sul suono, sulla scorta di una dichiarata ammirazione per il disco di Alvin “I’m Sitting In A Room”.
Il procedimento consiste nella produzione di un suono attraverso manipolazioni, ottenute col dispiegamento di una impressionante quantità di marchingegni, di suoni elettronici e di chitarre elettriche e synt, e cos’altro non so, non ho capito. Il suono si stratifica e si muove, addizionandosi anche di quanto catturato dai microfoni disseminati nello spazio nel quale la performance ha luogo.
Sono 41 minuti dove quel che accade è il suono, e tu sei lì, dentro al suo corpo.
E’ un’esperienza fisica.
E’ un lavoro estremamente “concettuale”
, costruito intorno ad algoritmi e organizzato come una esplorazione scientifica ma, paradossalmente, per apprezzarne la natura tutto quel che devi fare è non pensare, non cercare di capire, abbandonarti ad un ascolto primordiale: un neo neanderthaliano nella caverna del suono.
Ed è un disco che a me è sembrato bellissimo.
Ma che posso ascoltare solo quando, colto da “stereofonia”, accetto di abbandonarmi ad una sorta di “stereofilia” (non so se esiste, ma sembra funzionare, detta qui), di entrare “dentro ad un tessuto sonoro e stare nella sua texture ingigantita, come microbo in uno spazio siderale corrispondente ad una superficie infinitesimale della tua maglietta” (questa l’ho copiata da un mio vecchio commento ad un’altra recensione. Mi sembra molto adatta e poi non mi piace sprecare, non butto via niente)
Insomma, quando evitando il linguaggio, mi affido al suo scheletro.
Non so , è come se quello che entra dalle orecchie finisse anche nello spazio “vuoto” tra cranio e cervello, anzi, soprattutto lì, facendo ondeggiare e vibrare la sacca liquidosa nella quale è immersa quella materia misteriosa (madonna che roba strana che siamo) senza tirarla in ballo attraverso i soliti percorsi.
Intendiamoci, perché poi nascono sempre equivoci e la vita è già così complicata.
Non sto parlando di un capolavoro.
Non è questo
(la musica come esperimento, l’approccio concettuale, il rifiuto della melodia) contro quello (la musica come tradizione melodica e armonica, la gioia dell’ascolto, la “facilità”, il “rock”, le canzoni)
E questa non è, ovviamente, una recensione: ma l’avevo detto, è pure scritto nel titolo.

Una bella ed esaustiva recensione la trovate qui:http://www.musiconair.net/forum/viewtopic.php?&t=1884
Un po’ enfatica, nella chiusa, ma molto dettagliata e ricca di informazioni.
Io metto solo un mucchietto di samples.
E ti saluto, esausto lettore, con un minimo cenno del capo (non amo dilungarmi in chiacchiere :-)
Tu mandami a cagare, ti capisco.
Ma sii gentile, fallo sonoramente. :))

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