Sono da poco iniziati gli anni '50. Siamo nel 1953, per la precisione. Il mondo occidentale ha da poco iniziato a conoscere ed apprezzare i grandi maestri del cinema orientale, tra cui Akira Kurosawa (I Sette Samurai), Yasujiro Ozu (Tarda Primavera) e Kenji Mizoguchi, il quale vince il Leone d'Oro a Venezia proprio in quell'anno con quello che è considerato il suo massimo capolavoro, oggetto in esame di questa recensione, I racconti della luna pallida d'agosto.
Il Giappone è sempre stato legato al Kaidan, il genere letterario che racconta storie di fantasmi: questo film trae origine da due racconti di un autore settecentesco, tale Ueda Akinari, che raccontano di un contadino che abbandona la sua famiglia in cerca di fortuna. Due racconti che vengono fusi insieme in un fluire poetico grazie alla meravigliosa scrittura di Mizoguchi e del suo sceneggiatore di fiducia, Yoda Yoshikata: dunque in questo film i contadini sono due, Tobei, ossessionato dal desiderio di diventare un rinomato samurai, e Genjuro, che spera di guadagnare bei soldi grazie ai vasi che produce. I loro sogni vengono prima di tutto, sono più importanti persino delle rispettive famiglie, destinate ad una fine a dir poco disastrosa:
[ATTENZIONE SPOILER!] Miyagi, la moglie di Genjuro, morirà durante la sua assenza, mentre Ohama, la consorte di Tobei, sarà costretta a prostituirsi. [FINE SPOILER]
Durante il suo viaggio, Genjuro verrà sedotto da Lady Wakasa, che però si scoprirà non essere ciò che appare. La relazione con la Lady, trasformerà Ganjuro, il quale, al suo ritorno a casa, riabbraccerà la moglie...
Come detto in precedenza, questo film può essere ricondotto al filone narrativo dei "Kaidan" (spero che gli amanti del Giappone mi perdonino un eventuale errore nell'uso del plurale di questo termine), ovvero le storie di fantasmi, e fungerà da sorgente per quello che molti anni dopo verrà definito come J-horror, un genere dell'horror tipico della terra del Sol Levante che ruota attorno a presenze ultraterrene, a fanciulle defunte tornate per tormentare i viventi, tutte caratterizzate da una carnagione molto chiara e da capelli neri. Di conseguenza potremmo definire come fondamentale questo film per il futuro del cinema orrorifico giapponese e, almeno in parte, occidentale.
Però c'è da fare una precisazione: I racconti della luna pallida d'agosto non assume una connotazione spaventosa, i fantasmi presenti in questo film non svolgono la medesima funzione che potrebbero svolgere in film come, ad esempio, Ringu (forse il più importante film dell'horror giapponese appartenente alle storie di fantasmi). I fantasmi del duo Mizoguchi/Yoshikata non vogliono suscitare spavento e paura in Genjuro e nello spettatore, piuttosto lo intimoriscono, poichè tanto il protagonista quanto noi che guardiamo il film conosciamo i personaggi-fantasmi in una veste che poi si rivelerà del tutto errata: solo alla fine verremo a conoscenza della loro vera identità e della loro vera storia. D'altronde Mizoguchi fa del realismo il suo marchio di fabbrica e, di conseguenza, l'elemento soprannaturale, quando è presente, è sempre tenuto a bada, non sfocia mai in grottesche situazioni tipiche dei film horror.
Come tipico del cinema di Mizoguchi, a differenza di quello dell'altro grande maestro Akira Kurosawa, è la figura della donna ad aver maggior rilievo in questl film: tutte le figure femminili de I racconti sono in qualche modo vittime della forza distruttrice dell'uomo, che porta caos, guerra e morte, e devono riscattarsi in qualche modo. Se necessario, anche tornando nell'Aldiqua...
Capolavoro indiscusso del cinema orientale e, secondo il mio modesto parere, mondiale, I racconti della luna pallida d'agosto è un film che va riscoperto, non solo dai cinefili. È un perfetto esempio di film che continua anche dopo i titoli di coda, nella testa dello spettatore, che continuerà a pensarci per un po': pochi film sono così potenti da insidiarsi nella mente di chi guarda traendone nuova vita, come un parassita. Però questo è un parassita di cui non ci si dovrebbe mai disfare.
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