C’era una volta, nella modernità che fu, un mondo più semplice. Non migliore, eh: solo più primitivo. I confini erano linee tirate con il righello da signori in divisa che avevano in mano mappe giganti. La tecnologia era più elementare, la popolazione contenuta, e nessuno si era ancora inventato quelle istituzioni sovranazionali che producono milioni di tonnellate di carta con infinite e bellissime tutele, diritti, interpretazioni e soprattutto contraddizioni e tanto, tantissimo fumo.
All’epoca le grandi potenze tiravano linee dritte sulla sabbia e sulla terra fregandosene altamente di popoli, culture e tradizioni millenarie. E pazienza se quelle righe hanno generato guerre che durano da decenni, secoli, e che probabilmente ci seppelliranno tutti. Dettagli.
La verità è che il confine, visto da lontano, rassicura. È pulito, netto, geometrico. Semplifica. E dopo un ventennio di globalizzazione, eccoci qua: i muri tornano di moda, ora con filo spinato di design, telecamere termiche e droni – perché almeno la distopia sia elegante. Dalla Finlandia al Messico, il mondo torna al vecchio.
A completare il quadro, abbiamo il classico set da guerra contemporanea: rifugiati standard, a cui presto si uniranno centinaia di milioni di rifugiati climatici, mentre ci avviamo con passo deciso verso i 10 miliardi di abitanti. Che tenerezza.
A questo punto mi permetto una deviazione da fenomeno, pisciando volutamente fuori dal vaso. Vi ricordate la crisi del Trecento? Quella che ha dimezzato la popolazione europea? Certo, poi è arrivato il Rinascimento, ma sette ondate di peste non credo che siano state proprio una passeggiata in centro. E sì, è nato da un insieme di cause. Ma la prima era proprio il sovrappopolamento.
E adesso torniamo a Klaus Dodds. “Guerre di confine” è un libro piacevole che non pretende di essere un trattato biblico – per quello c’è la bibliografia, infinita come le litigate tra stati confinanti – ma è comunque abbastanza onesto, utile, solo un filo di parte e ci fa vedere quanto siano intricati i confini nel mondo di oggi. Ogni stato può raccontarsi la sua storiella per rivendicare un pezzo di terra – di solito per motivi economici mascherati da patriottismo –, e con la fine dell’unilateralismo nessuna alleanza è sacra: tutto è negoziabile, tutto è revocabile, tutto è precario.
Oltre ai confini tracciati male nel passato (sì, Medio Oriente, sto parlando con te), il libro ci offre strumenti base per capire le dispute di ieri e soprattutto quelle di domani. Lo scioglimento dei ghiacciai, ad esempio, sta già modificando i confini europei di Italia e Austria; e nei prossimi decenni toccherà a quelli più pericolosi, come India-Pakistan e Cina (tutti e i tre paesi hanno La Bomba). Il controllo dell’acqua dolce diventerà uno dei temi cruciali, e guarda caso moltissimi confini seguono fiumi, isolette insignificanti o laghi che tanto insignificanti non sono.
In Africa si stanno già apparecchiando i presupposti per scontri epocali sul Nilo, sull’accesso al mare e su qualsiasi cosa possa essere sfruttata. Gli esempi sono talmente tanti che elencarli qui sarebbe come leggere un menù di 100 portate: alla terza ti passa l’appetito.
Molto più intrigante è la parte sulle isole destinate a sparire con l’innalzamento dei mari. Paesini minuscoli, certo, ma con zone economiche esclusive gigantesche, fondamentali per pesca ed estrazione. L’impero americano, ad esempio, è un’entità surreale: nelle loro mappe da cartone animato mancano l’Alaska e le Hawaii, ma in compenso hanno basi in ogni isolotto del Pacifico: Guam, Marianne, Marshall, Midway, Samoa… Se anche solo una di queste sparisse, la disputa che ne seguirebbe sarebbe degna di un reality politico-militare. E non è nemmeno un futuro tanto lontano.
Poi c’è la questione dello sfruttamento dei fondali marini. Dodds ne parla troppo poco, e questo è male, ma basta sapere che il fitoplancton è fondamentale per contrastare l’acidificazione degli oceani. Però stiamo tranquilli: Drill Baby Drill, Xi, Putin e Modi hanno tutti un pollice verdissimo. Valuteranno attentamente, figurati. Anche perché l’alto mare dovrebbe essere patrimonio dell’umanità. Come l’Antartide. Dormiamo sereni.
Tra una dozzina d’anni scadrà il divieto di pesca nel Mare di Ross, e ovviamente gli stati con grandi flotte ittiche si stanno già leccando i baffi. Ma certamente troveranno un accordo per preservare la riserva. Esattamente come sono sicuro della vittoria in Serie A del Castel di Sangro nel 2025.
Poi mancano il Polo Nord, le future Vie della Seta su ghiaccio, i contenziosi sullo spazio orbitale ormai intasato di satelliti che manco un garage abusivo, e la corsa agli armamenti verticali. La guerra in Ucraina ha puntato i riflettori verso l’alto e adesso tutti progettano armi cosmiche. Poi arriverà la Luna, patrimonio dell’umanità anche lei, e chissà: un giorno un presidente della Luna o di Marte potrebbe decidere di dichiarare guerra alla Terra. La fisica, tra l’altro, non aiuta: è molto più facile sparare un missile verso il pianeta Terra che da esso. Più che queste pippate avrei preferito che sviscerasse più il tema ambientale e le conseguenze a breve termine. Non voglio apparire troppo stronzo ma la verità è che, anche se non me ne vanto, sono egoista.
Comunque è a questo punto che chiudo il libro, sbuffo e dico vaffanculo. Mi metto a guardare le vere Star Wars degli anni ’70. Tanto diventeremo tutti Jedi, e con una spada laser risolveremo i problemi di questo libercolo.
Woommmm… wooooommmm.
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