Il lungo film descrive la cattura, in Birmania, a guerra finita, di una guarnigione giapponese, guidata da un sensibile ufficiale che insegnava ai soldati il canto e la musica. Uno di loro, Mitsushima, ha particolare talento per le variazioni suonate sull'arpa birmana. Nel campo di prigionia in cui attendono il rimpatrio, proprio lui decide di accettare l'incarico di tentare di convincere alla resa un altro drappello di soldati giapponesi assediati su un monte dalle truppe alleate. Il tentativo è inutile e il fanatismo patriottico produce un grande macello. Mitsushima sopravvive, ma resta gravemente ferito. I compagni intanto cambiano campo e non cessano di pensare a lui che viene salvato da alcuni monaci buddisti. Il ricordo della morte e dell'oblio che ingoierà le vittime di una violenza insensata, al di là della guerra stessa, e la partecipazione ad un rito religioso di commemorazione di alcuni soldati britannici, fanno nascere in lui il desiderio di non dimenticare e di ritrovare uno per uno i giapponesi morti, abbandonati nell'enorme foresta birmana. Così, fattosi monaco buddista, percorre solitario le sconfinate foreste birmane per seppellire i compagni morti dimenticati lì. Raggiunge anche i compagni nel nuovo campo di prigionia, ma, per non cedere alla commozione non si fa riconoscere da loro e parla loro con le variazioni dell'arpa, unico strumento in grado di comunicare ciò che ora egli ha compreso. E i superstiti, per i quali il ricordo di Mitsushima era divenuto un'ossessione, tornano in Giappone senza avergli parlato, se non con l'ausilio di un pappagallo ammaestrato, perché la presenza fisica, l'avere qualcuno davanti, è la suprema presenza, ma anche la suprema mancanza.
Tornati in patria, i vivi avrebbero pian piano dimenticato e la vita sarebbe ricominciata con le sue commedie e le sue banalità. La presenza vera era quella della memoria, la vita vera era quella dei morti, buoni o cattivi, consapevoli o inconsapevoli, che, finita nella follia della guerra la metafisica, folle dispersione di ogni individuo che vive, nell'oblio di tutti, ma nel ricordo di uno, testimoniano con il loro silenzio il permanere di ciò che non muta. L'Arpa birmana è dedicata a loro e ad un uomo che nella solitaria missione di raccogliere quelli che potrebbero essere refusi inavvertiti di una ragione superiore (e falsa), custodisce il silenzio assordato prima dagli spari, poi dai singoli impulsi alla sopravvivenza, inevitabili, ma non per questo privi di una sotterranea mancanza di pietà.
Memorabili le scene dell'immensa foresta birmana, l'umile forza del protagonista, l'umanità ingenua dei compagni. Qualche tratto oratorio, nello stile del tempo, ma un'emozione grandissima e autentica.
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