La montagna

La montagna è un luogo ostile, impervio all’esistenza, a meno di non appartenere alla famiglia dei bovidi caprini e di esser provvisti di omaso abomaso rumine e reticolo.

Oppure si deve essere un tafano.

Quindi un essere perfettamente in grado di inerpicarsi e brucare, o un parassita adattato a suggere dalla spessa cuticola di codesti mammiferi arrampicatori e mangiatori di arbusti.

D’inverno nevica e cadono slavine che travolgono sciami di umani con tutine alla moda e costose protesi ai piedi concepite per scorrazzare sui pendii, fino a scivolare e rompersi gli arti.

Allora arriva l’elicottero del pronto soccorso, con ulteriori rischi per la collettività.

D’estate gli anziani partono entusiasti alla volta di gite assolate che non di rado culminano in suicidi collettivi giù dai burroni.

Sempre che una vipera non azzanni le aliene anemiche caviglie.

Chi arriva in cima e sopravvive gode di un bel paesaggio, ma poi si deve scendere prima che la necrosi da congelamento o repentine furie atmosferiche colgano alla sprovvista.

Tutti chiari segnali di una profonda incompatibilità della razza umana a tali luoghi.

Alcuni scellerati si insediano in comunità dedite alla pastorizia e alla produzione di formaggelle, con drammatici esiti e mutazioni che sono sotto gli occhi di tutti.

Gli autoctoni infatti si esprimono con versi per lo più gutturali, assumendo cadenze (forse per l’ atavica affiliazione con mucche e capre) e frequenze insopportabili per l’orecchio umano.

Per la depressione infine si dedicano all’alcool, mentre intere generazioni di giovani affidano il loro disagio esistenziale a mezzi meccanici, schiantandosi con i loro motocicli lungo i tornanti del luogo.

Talvolta infine capita che tuo suocero, afflitto da migrazione orobica da fine settimana, ingolli una di codeste formaggelle poco stagionate.

Quindi chiede un passaggio in auto e, nell’angusto abitacolo, comincia a parlare e parlare e parlare esalando condense talmente pestilenziali che presto saturano l’ambiente.

Nel breve volgere di pochi secondi l’utilitaria diventa più simile a una stanza di Auschwitz e i danni ai recettori olfattivi sono irreversibili.

D’altronde è comprensibile.

Quando lo sguardo non può volgere oltre invalicabili muri di pietra millenaria anche il pensiero non potrà mai librarsi.

Carico i commenti... con calma