Nello stesso anno in cui Orson Welles faceva uscire il suo Macbeth (1948), un altro attore/regista di enorme talento, Laurence Olivier, terminava una versione di uno dei capolavori shakespeariani, "Amleto". La pellicola si aggiudicò ben 4 premi agli Oscar, oltre al prestigioso Leone D'Oro a Venezia.

"Così spesso accade a uomini singolari,
per colpa d'un capriccio, di un neo della natura,
per l'abbondanza d'un loro qualche umore
che recinti e difese della ragione travolgano
per un'abitudine di cui si faccian schiavi.

A questi uomini,
segnati dal marchio di un difetto, accade
che l'altre lor virtù, se anche pure come la grazia,
appaiano al giudizio del mondo guaste e corrotte.
Per quell'unica colpa."

Con questo prologo, steso di sua mano, Laurence Olievier faceva iniziare la sua personale lettura del testo inglese, segnando profondamente con il suo talento la forma ed i contenuti dell'opera, ma senza per questo stravolgere trama e ambientazione (chissà perché mi viene in mente Ronconi?). Intreccio e contesto storico rimangono quelli dell'originale di Shakespeare, ma l'angolazione da cui il regista considera i personaggi ed i luoghi incide e muta il significato dell'opera. Già dal prologo è intuibile l'attenzione verso quel male interiore che minala personalità umana e la perde facendola deviare dalla ragione: nonostante la simpatia che siamo soliti provare per Amleto è innegabile come un personaggio che inizia puro e limpido si perda nello stesso mare torbido che avvolge gli altri caratteri.

L'amicizia stretta dieci anni prima con Ernest Jones (allievo di Freud) comportò notevoli cambiamenti al testo dell'Amleto che Olivier era solito portare in scena ormai da tempo in patria; la dimensione psicanalitica del regista scava nei personaggi e nei loro tormenti interiori, ricalcando il testo originale ma accentuando ogni lettura introspettiva (in un'opera, l'Amleto, dove tale introspezione era secondaria rispetto ad altre del maestro inglese). Si è posto in rilievo da parte della critica il complesso edipico che interesserebbe Amleto: una lettura più che giusta, ma ciò che preme sottolineare è il rapporto ambiguo con la madre Gertrude. La regina provoca lo sdegno ed il disprezzo del figlio, dato che si è sposata troppo in fretta dopo la morte del marito e padre del principe, ed inoltre con il fratello del defunto. A questo rapporto di ostilità si aggiunge quello di affetto/amore, che spesso sfocia in esternazioni davvero eccessive e che infrangono il normale rapporto madre-figlio.

Quando il fantasma del padre gli rivela di essere stato ucciso proprio dal fratello, Amleto medita vendetta e lentamente perde il senno (in modo più o meno consapevole, se ne è dibattuto): ma il regista non è tanto interessato al lato irrazionale del carattere del protagonista (come farà Branagh) mentre preferisce concentrarsi sui rapporti tra i caratteri principali.
In particolar modo a tener banco è quello tra Amleto ed Ofelia (semi-findanzata e figlia del ciambellano di corte): il principe di distacca e si avvicina a lei con una mutevolezza di carattere imprevedibile e con un misto di odio ed amore che si riscontra anche nel legame con la madre. È come se Olivier volesse far intendere allo spettatore l'intimo rapporto tra madre e figlio (i cui attori avevano età quasi simili) ponendolo di fronte a quello più sano tra amanti.

Una menzione particolare agli scenari (che vinsero l'Oscar): le stanze del Castello di Elsinore sono spoglie e tetre, proprio come l'umbratile carattere del Principe, ma al tempo stesso sono piene di gradini, scalinate, torri merlate, muri portanti, sale secondarie: l'ambiente concorre a delineare una presenza, quella di Amleto, tormentata ed insieme complessa.

Fedele al testo shakespeariano in molti elementi (si sente però la mancanza  di Rosencrantz, Guildenstern e Fortebraccio) se ne discosta in molti altri, prediligendo un approccio psicanalitico riuscito e maestoso quanto estraneo allo spirito originario. Rimane un film bellissimo, probabilmente superiore ad ogni altra rivisitazione del testo, anche se "meno Amleto" della versione di Branagh, più azzeccata e fedele.

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