Il cinema di Lav Diaz, monolite con cui prima o poi il cinefilo di turno prova a confrontarsi, è inestricabilmente legato alla storia del suo paese, le Filippine: coacervo di culture, martoriato da colonialismo, corruzione e catastrofi naturali. L'autore si pone sempre dalla parte dei miserabili, ma il suo sguardo è distante, imperturbabile, anche quando la camera ritrae stupri, omicidi, malattie e disgrazie assortite. Perché ciò che cerca non è la compassione, ma la risposta a una domanda che già in Florentina Hubaldo CTE, tuttora il suo massimo capolavoro, si era rivolto: da dove vengono il male e la sofferenza?
From What Is Before (Pardo d'Oro al Festival di Locarno 2014) è ambientato nei primi anni '70, quando Ferdinand Marcos è al potere e la legge marziale sta per gettare il paese nello scompiglio. In un piccolo barrio ai margini della società accadono fatti misteriosi: un'epidemia decima le vacche; un uomo viene ritrovato ucciso, col corpo sfregiato da morsi e graffi; dalla foresta si sentono pianti terrificanti; alcune baracche vengono bruciate nella notte. Qualcosa sta minacciando la vita (apparentemente) pacifica e primitiva degli abitanti, e sembra avere poco a che fare con la dittatura di Marcos...
I parallelismi con Il nastro bianco di Haneke sono inevitabili sia per la vicenda in sé che per la contestualizzazione: entrambe le storie ambientate nel passato, sull'orlo di radicali cambiamenti sociali, rappresentate da una regia e una fotografia gelide. Ma soprattutto, in entrambe le storie si annida un presagio, un messaggio malevolo che pare andare oltre le implicazioni politiche del periodo. Questo non è un film storico tout court, e non è un caso che l'occupazione dei militari abbia un ruolo secondario, un'istanza narrativa che comunque non va ignorata, specie nelle ultime scene.
Ancora una volta emerge la figura della donna malata, un corpo che si fa effigie della terra: Florentina Hubaldo era malata di encefalopatia traumatica cronica (CTE) che le cancellava la memoria, compromettendo quindi la ricostruzione e la significazione della propria storia; qui invece abbiamo Joselina, affetta da un grave handicap che le dà le sembianze di un mostro, di una posseduta, e al contempo di una creatura dai poteri taumaturgici. Del resto la natura stessa, elemento onnipresente nella filmografia di Lav Diaz, viene ritratta da una parte come una madre terribile, dall'altra come oggetto di culto e venerazione, un ibrido tra folklore indigeno e iconografia cristiana: la sorella di Joselina, Itang, si reca spesso a pregare dinanzi a un grande scoglio sul mare in tempesta, dove crede che risieda una sorta di "Vergine" in grado di guarire Joselina. Nel corso del film natura e uomo si compenetrano anche a un livello puramente visivo, grazie a campi lunghi, lunghissimi, ad ampio respiro, e a un bianco e nero tenue. Tanti gli uomini che vediamo sullo schermo, quante sono le solitudini.
Un evento in particolare getta un'ombra sul barrio: lo stupro di Joselina, a seguito del quale ognuno si macchierà di qualche colpa, tanto da chiedersi fino a che punto l'arrivo delle truppe di Marcos abbia effettivamente causato la dispersione degli abitanti e l'abbandono della terra tanto riverita. È un interrogativo lasciato in sospeso e prenderà forma proprio nella biforcazione del finale: l'ultimo rituale funebre celebrato secondo un'antica usanza del posto, un addio definitivo non solo a un vecchio amico ma anche alle proprie radici; e la violenza nascente della dittatura, che da quel momento scriverà un capitolo a dir poco controverso della storia delle Filippine.
Sempre fedele alla propria sintassi pachidermica degna della nomea di "cinema contemplativo" (i vari Béla Tarr e Tsai Ming-liang a confronto sembrano film di intrattenimento), ma senza rinunciare a una struttura narrativa più lineare, Lav Diaz realizza quello che forse è il suo film più personale e nostalgico, basato sulla sua infanzia e i personaggi che l'hanno popolata; e di sicuro, per quel che mi riguarda, regala ai suoi seguaci un altro capolavoro dalla portata enorme.
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