Di solito (mi) capita il contrario. Più volte vedo -o meglio scelgo di vedere- lo stesso film, più ne resto avvinto, ne scopro le tante sfumature, più chiaramente ne colgo il senso. Così, la prima volta che ho visto "Il grande freddo" ho gridato al capolavoro: eccezionalmente affiatati e spumeggianti gli attori, ben scritta la sceneggiatura, regia esperta e attenta a pesare ciascun personaggio in modo che l'affresco corale risulti equilibrato, e poi la colonna sonora che forse è una della più belle, fra quelle non originali, della storia.

Vedendolo poi successivamente, vuoi perché gli anni passano e quindi hai modo di vederne altri o leggere altro ancora, vuoi perché quanto ti succede attorno ti fa cambiare idea, l'ho trovato sempre meno plausibile e sincero, fino a ritenerlo un film programmato a tavolino, per suscitare ora questa ora quella emozione nello spettatore, arruffianandoselo, segnatamente quello la cui generazione vi è rappresentata. Per ora più in basso, almeno nella mia opinione non riesce a sprofondare.

La storia ha origine da un suicidio. Al funerale si ritrova tutta una compagnia di amici di vecchia data, sessantottini, quasi tutti affermati in una direzione contraria a quella per cui hanno tanto lottato: chi è diventato imprenditore, chi avvocato di successo, chi medico, chi è entrato nel commercio della propria immagine televisiva, chi ha messo su famiglia sposandosi con il tipo più borghese che si possa immaginare etc etc . Sopravvivono gli ideali di un tempo solo in un giornalista che scrive pezzi "che un americano medio riesca a leggere durante un cacata media" e in un cocainomane speaker radiofonico che ancora rispolvera la parola "sbirri" o gioca con la telecamera. Questi ultimi due sono macchiette almeno quanto i primi. Tutti insieme decidono di fermarsi per il fine settimana a casa di Kevin Kline, l'imprenditore, che di lì a poco venderà la sua catena di negozi sportivi ad una multinazionale. Mentre nel giradischi suonano i classici della loro gioventù, si raccontano l'un l'altro i propri fallimenti, le residue speranze, giocano a rugby, fanno i goliardi, esorcizzando così il pensiero del suicidio del loro compagno. Il tutto illuminato dalla luce autunnale, con tappeti di foglie e sole tiepido.

La peggior idea (americana) di come si debba fare un film, applicata ad un cast di tutto rispetto ma che soffre perché sono tutti burattini e il burattinaio, anche se talentuoso, non riesce a nascondere i fili. Kevin Kline, Glenn Close, William Hurt, Tom Berenger, Jeff Goldblum è una sfilza di nomi importanti che pochi film possono vantare, ma tant'è. Forse c'era da aspettarselo da chi (kasdan) con Lucas ha scritto due episodi di Star Wars e ha dato vita al personaggio di Indiana Jones, e poi avrebbe diretto quel polpettone di French Kiss.
E' un film da elettrocardiogramma piatto, pieno zeppo di nostalgismo, molto pop, simil-Altman ma senza averne la naturalezza, diretto da un regista che avrebbe avuto bisogno di una cura ricostituente a base di John Ford, Raoul Walsh e Howard Hawks da abbinare alla lezione neorealistica.

Un messaggio sincero "The Big Chill" riesce a trasmetterlo, forse oltre le intenzioni di Kasdan: l'idea del '68 come di una rivoluzione sterile, intelletualistica e modaiola. Mentre il più grande rischio è che la pellicola possa corrompere la bellezza assoluta della colonna sonora.

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