Se non è il vostro genere, non ci sarà modo di convincervi che Room è un bel film. Passate direttamente ad altro. Ma se avete voglia di trascorrere due ore di malinconia e delicatezza, allora potreste scoprire le qualità dell’ultimo lavoro di Abrahamson, il regista di Frank. Seppur stilisticamente non ancora pienamente maturo, il regista irlandese ci consegna un lavoro ben fatto da molti punti di vista. Con un soggetto del genere, il rischio di affondare nel lacrimevole fine a se stesso era elevatissimo. Viene fortunatamente scongiurato, grazie a una tonalità malinconica, che non nega le lacrime e le catarsi, ma sa anche distaccarsene rapidamente, senza trasformare i drammi di madre e figlio in un mercimonio delle emozioni. È un occhio pudico quello di Abrahamson, che osserva con discrezione e poi glissa, va oltre, cerca nuovi spunti.

Aiuta non poco la sceneggiatura, scritta da Emma Donoghue, l’autrice del romanzo da cui è stato tratto il soggetto del film. Una scelta del genere ha molte implicazioni positive: Room infatti presenta una pregevole scansione degli argomenti, messi in fila con ordine, ma mai resi troppo palesi nei dialoghi. La grazia della scrittura della Donoghue permette di snocciolare gli argomenti senza però togliere nulla al realismo del copione. E quindi mentre assistiamo alle vicende di Jack e della madre Joy, riflettiamo anche sul concetto di limiti conoscitivi, sul fatto che la nostra mente venga plasmata quando siamo piccoli in base a quanto vediamo e quanto ci viene raccontato dai nostri genitori. Molto bello e delicato il modo in cui viene presentato il microcosmo della Stanza in cui Jack è nato e cresciuto per cinque anni: ogni piccolo dettaglio, anche il più insignificante, è per il bambino una fetta importante di mondo.

La bontà della scrittura e la scelta misurata della tonalità hanno come sigillo la costruzione di personaggi complessi, sfaccettati: la madre è ovviamente il grande punto di riferimento di Jack, ma sa essere severa quando serve. Il Vecchio Nick non viene ritratto, com’era facile fare, come un banale aguzzino. Sicuramente lo è, ma regista e sceneggiatrice non si arrogano il diritto di giudicare: è un bellissimo modo di fare cinema. Non è tanto una questione tra il bene e il male, è una questione di fatti e conseguenze, di scelte e rimpianti. Sarebbe stato davvero facile quanto inutile fare un film di questo tipo sul bene e il male.

Gli attori giocano poi un ruolo decisivo: oltre alla brava Brie Larson, ho adorato il piccolo protagonista Jacob Tremblay. È lui che rende emozionante il film. I concetti narrativi perdono valore se non c’è l’emozione. E il piccolo Jack insieme alla madre di emozioni ne regalano davvero molte e non scontate. Una piccola anticipazione, a mo’ di esempio: quando i due scappano dalla Stanza, Jack si trova spaurito e ritroso di fronte alle persone del mondo. Ebbene, dopo tanti momenti di timore e disorientamento, il piccolo si rivolge alla nonna, dicendole: «Ti voglio bene». In un film costruito in modo banale, la frase sarebbe risultata inutile: non in Room, perché lo spettatore ha seguito tutti i piccoli mutamenti nel cuore del protagonista e quindi assegna a quella semplice frase un valore ben più grande, concettuale oltre che emotivo. Questo significa fare buon cinema.

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