L'inaudito
Ha una solitudine lo spazio
Solitudine il mare
Solitudine la morte
Ma queste saranno compagnie
In confronto a quel punto più profondo
Segretezza polare,
Un'anima davanti a se stessa:
Infinità finita
(Emily Dickinson)
Essere isolati dal mondo è un desiderio che forse ha attraversato tutti almeno una volta, perché talvolta può apparire come un rimedio a quei momenti in cui capita di essere presi dalla disperazione, qualcosa che purtroppo la vita elargisce senza risparmio. Ed è così che nascono i pensieri più cupi, quelli che divorano il cuore lasciandoci l'anima a brandelli ed un incolmabile vuoto nel petto al quale non si sa dare risposta. Però può anche capitare che, superato lo sconforto, non ci si pensi più, o almeno si faccia finta di non pensarci, e allora non ci si rende conto di quanto possa essere difficile vivere chiusi in sé stessi, all'interno del proprio solitario universo e quanto questo anelito di isolamento possa in realtà trasformarsi in una galera dell'anima.
Ludwig Van Beethoven dovette suo malgrado provare l'esperienza della solitudine quando la perdita dell'udito lo costrinse a farlo. Troppa la vergogna per aver perso, lui, proprio lui, il dono di ascoltare. Fuggire dal mondo lontano da tutti fu la soluzione per sopportarne il peso intollerabile. Appoggiava la testa al pianoforte per sentirne le vibrazioni e doveva essere tremendo lo sconforto di avvertire in lontananza il flusso sonoro che scappava nell'aria, senza che potesse catturarlo. Ma anche in questa disperata condizione la musica suonava sempre e comunque in lui, impetuosa e potente come un oceano in tempesta, dirompente come un fiume in piena e allo stesso tempo capace di trovare ristoro, pace, delineando un umano senso di eterno conflitto dell'animo. Fu la musica a trattenerlo dall'intenzione di porre fine ai suoi giorni:
"L'arte, soltanto l'arte mi ha trattenuto"
E fu la disperazione a diventare arte immensa, affrancandolo per l'eternità dinanzi a tutti gli uomini che ancora oggi scorgono nelle sue opere il senso dell'inaudito.
Solo sapendo tutto ciò è possibile addentrarsi in profondità nella sonata per pianoforte n. 32 opera 111, l'ultima sonata per pianoforte non solo del compositore tedesco, ma del classicismo intero, che con quest'opera Beethoven conduce all'apice per annientarlo definitivamente ed aprire così orizzonti differenti, tesi verso la creazione di nuove forme musicali. Una granitica pietra tombale, l'ultimo testamento di un'era, scritto attraverso il percorso di dolore di un uomo, ecco cosa è questa sonata.
Per queste ragioni anche per i più grandi interpreti è un'impresa ardua suonarla. Trasmettere i significati oltre lo spartito richiede maturità, sensibilità e cultura non comuni, l'abilità e il talento pur necessari non bastano. Ho ascoltato diverse versioni di quest'opera da Wilhelm Kempff, a Alfred Brendel, Maurizio Pollini, Ivo Pogorelich, ma forse nessuno come Arturo Benedetti Michelangeli ne ha toccato veramente appieno la tormentata bellezza. Ascoltate il primo tempo "Maestoso. Allegro con brio appassionato" e vedrete che in un niente sarete catapultati dentro un epico universo di contrasti, rappresentati da due temi musicali in continua contrapposizione: il primo straziante, inesorabile, dilaniante, sofferto, il secondo luminoso, consolatorio, idilliaco. Due sentimenti in tensione che zoppicando cercano faticosamente di sopraffarsi l'un l'altro, esprimendo la metafora della lotta tra la vita e la morte. Nove minuti e mezzo vissuti con un senso di frattura continua fra schiaffi e carezze, col soave che si mostra appena per rimanere momentaneamente sospeso e dunque nascondersi ancora. Ed è solo l'inizio dell'ultimo viaggio della sonata, perché il culmine arriva con la seguente "Arietta" sviluppata attraverso cinque variazioni più una coda finale. E qua il Beethoven che ci regala Michelangeli è di una bellezza sovrumana, la stessa che ritroviamo nelle parole del Doctor Faustus di Thomas Mann che descrivono questo passaggio indescrivibile:
"Il tema dell'Arietta, destinato a subire avventure e peripezie per le quali nella sua idillica innocenza proprio non sembra nato, si annuncia subito e si esprime in sedici battute riducibili a un motivo che si presenta alla fine della prima metà, simile a un richiamo breve e pieno di sentimento - tre sole note: una croma, una semicroma e una semiminima puntata che si possono scandire come "Pu-ro ciel" oppure "Dol-ce Amor" oppure "tem-po fu" oppure "Wie-sengrund": e questo è tutto. Il successivo svolgimento ritmico - contrappuntistico di questa dolce enunciazione, di questa frase malinconicamente tranquilla, le benedizioni e le condanne che il maestro impone, le oscurità e le chiarità eccessive, le sfere cristalline nelle quali la precipita e alle quali la innalza, mentre gelo e calore, estasi e pace sono una cosa sola: tutto ciò potrà dirsi prolisso o magari strano o grandiosamente eccessivo, senza che per questo se ne sia trovata la definizione poiché, a guardar bene, essa è indefinibile; e Kretzschmar ci suonava con mani febbrili tutte quelle spettacolose variazioni cantando forte "Li-lala" e gridando mentre suonava. "
Leggere queste parole ascoltando l'interpretazione di Arturo Benedetti Michelangeli regala una sensazione difficile da descrivere: è come se si venisse risucchiati dentro il racconto. Sembra così di vedere Kretzschmar che espone il tema con dolce irruenza e vien voglia di cantarlo al cielo quel "Li-lala" quasi con il desiderio di fondersi con questa musica per diventare una cosa sola con essa, per aspirare ad essere una pur minima parte di questo spirito ultraterreno tradotto in musica. Finché si viene ridestati d'incanto al termine delle variazioni quando con l'ennesima ripresa giungono una serie infinita di trilli che si concatenano tra loro:
"Qui... la lingua... non è più... liberata dalla retorica... ma la retorica... dalla parvenza... del suo dominio soggettivo, infine la parvenza dell'arte... è eliminata... l'arte elimina sempre... la parvenza dell'arte. Lillala! vi prego di ascoltare ... come la melodia... sia sopraffatta dal peso degli accordi... nel passo imitato. Diventa statica... diventa monotona... ecco due volte il re, tre volte il re di seguito... ci pensano gli accordi... lil-lala... "
Poi volgendosi verso la fine il pianoforte svuota l'animo da ogni pensiero. Quelle poche note si spengono solitarie in un addio che dice "Tutto è compiuto". La sonata non ha così un terzo tempo e si chiude con la certezza che nulla dopo potrà essere uguale a prima.
"Qui terminava la sonata, qui essa aveva compiuto la sua missione, toccato la meta oltre la quale non era possibile andare, qui annullava se stessa e prendeva commiato - quel cenno d'addio del motivo re-sol sol, confortato melodicamente dal do diesis era un addio anche in questo senso, un addio grande come l'intera composizione, il commiato della Sonata. "
Un commiato che con la stessa forza avrebbe risuonato in eterno.
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