Leggo spesso in internet, tra blog e siti di musica, discussioni o dichiarazioni molto appassionate e cariche della forza della convinzione del "vero" ascoltatore di musica o del musicista più o meno esperto, discussioni che spesso trattano della complessità e della qualità di un tipo di musica rispetto ad un'altra; e, chi come me è avvezzo a tali perdite di tempo "mal-di-testa-generanti" nota la costante presenza di alcune famiglie inossidabili, una sorta di censo e nobiltà di casta intellettuale o pseudotale il più delle volte purtroppo. Per esempio: gli hendrixiani, o coloro che hanno come unico dio la musica di quegli anni, i pinkfloydiani, quelli che credono solo nella religione del jazz e via dicendo: niente di nuovo finora no?

Parlo di coloro che a tutti costi devono sostenere che la musica dopo la scomparsa del loro beniamino è finita, e tutti a casa. Chiaramente questo discorso vale anche per gli integralisti della musica classica.

Domanda di un giornalista di Repubblica a Uto Ughi, violinista di fama eccelsa : "ma non le piace nulla della cosidetta musica leggera, musica di oggi o di ieri, ma distante in ogni caso dalla musica classica (almeno in termini di espressione aggiungerei io), non so, De Andrè per esempio?" Risposta : "Sì, De Andrè, bei testi, ma non è niente [glissa]". Da un intervista a Maurizio Pollini, pianista di fama stratosferica: "ma non le piace il jazz?" Risposta : "No, non lo ascolto, ma non mi piace" (sic).

Ora. La rabbia immensa che provo e che ho provato ogni volta che mi trovo di fronte a cose di questo genere è capace davvero di sconquassarmi. Almeno quanto leggere qua e la che "le cose che ha fatto un qualunque rockettaro le aveva già fatte Debussy o Liszt duecento anni prima" (queste cose purtroppo le leggo e le sento molto spesso, e non solo in ambienti chiusi come i conservatori). Questa rabbia la provo perchè penso che sia stupido ed inutile mettersi a fare classifiche e gare su chi ha fatto prima cosa; stiamo parlando di cose che ci mettono i brividi e non ci fanno dormire la notte per la loro bellezza e per dove ci portano, sti cazzi di tutto il resto no? Basta co sta gara a chi è più figo no?

Detto ciò e amando tutti e stringendo tutto il mondo musicale "moderno" metaforicamente da Robert Plant e soci a Stockhausen, dai Talking Heads a chi cazzo vi pare a voi, Franco Spaturnio o Ciccio Bastardo che sia, qualcosa da dire di forte al riguardo di queste ultime "sonate" c'è. E cioè che non ci si può esimere dal non considerare la complessità di un opera, il fatto che ascoltando questa musica e fermandosi ad ascoltare, magari distesi per terra, con le cuffie, volano pianoforti pesanti tonnellate, volano leggerissimi, sospinti dall'immane forza che serve per continuare a produrre questa musica, la forza dell'esecutore che deve letteralmente plasmare ogni volta la pietra michelangiolesca di questi spartiti che non furono capiti all'epoca e che risultano ancora troppo oltre anche oggi in alcune soluzioni.

Le strutture di questi pentagrammi si rincorrono e costruiscono Città immense sopra ad altre Città e tutta la tradizione di Bach sembra mutare geneticamente verso qualcosa di più forte, oltre l'uomo, e muscolarmente si percepisce su tutti i bassi. Sembrano pezzi a quattro mani ma così non è. L'affresco protojazzistico dell'opera 111 e le tempeste sonore della 109 provocano una sorta di stravolgimento anacronistico che non ci fa capire più che cosa stiamo ascoltando. E' musica romantica? No, i detrattori diranno con pregiudizio? sarà il solito plin plin intellettuale? No, qui è un Dio antropomorfico che suona con i suoi martelli su un pianoforte grosso come una montagna. Suona della sua condizione, suona di tutto quello che pensa, di un sublime che lo sprofonda dentro quella montagna con un boato. Non finirai mai di ascoltarlo, e ti rendi conto che è qualcosa che sia sentendolo, e soprattutto, chiaramente, suonandolo, ti può portare alla consunzione corporea, perchè è troppo. Drammaticamente ti rendi conto che non hai mai sentito e mai sentirai nient'altro di così complesso.

A me ricordava un aspetto di un libro non troppo conosciuto come dovrebbe purtroppo: "Solaris" di Stanislaw Lem, colui a cui devono tutto i figli del cosidetto "Sci-Fi". Torri senza limiti di ripiegamento della loro struttura su se stesse, il cui significato era oscuro a chi le guardava, una geografia frattalica, mondi dentro altri mondi su tutta la superficie tridimensionale, perchè, è proprio così questa musica. Su carta, se la guardi bene, è a tre, quattro dimensioni, più il tempo.

Qui LvB è andato oltre, e poi è morto. Qui e nella "Hammerklavier", nella "Grande Fuga", tutte opere che hanno segnato un passaggio verso nuove forme, verso nuove libertà, andando oltre persino a se stesso e alla sua produzione musicale precedente. Verso "nuove dissonanze" fino per l'appunto al quartetto op.133 che è praticamente senza tonalità definita. Scelgo Pollini perchè forse è il migliore, nonostante tutto, nel coniugare filologia ed espressività, presenza totale del compositore e spazio per la sensibilità dell'esecutore; qualcosa che si avvicina alla perfezione.

E ora, devo dire la stronzata anche io. Adoro tante cose diverse. Ma quando ascolti la "cosa Beethoven" ti rendi conto che certe profondità le puoi raggiungere solo con uno scafandro di diamante, montagna e martello. Non c'è storia. A parte Miles e la stagione del jazz.

"Ascoltiamo la musica con i muscoli" [F. Nietzsche]

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